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  • Immagine del redattoreAlitaki

Prima di diventare cascata


Salto del Monday - L'acqua che diventa cascata

A Iguazù vedo due farfalle.

Sembrano gialle, ma meglio non fare troppo affidamento sui colori rilevati dal sottoscritto. Svolazzano insieme, esili ed ostinate, fino a toccarsi. A guardarle bene, si capisce che c’è una che insegue e l’altra che fugge. Uno spostamento d’aria le trascina verso l’abisso, sembrano scomparse e già mi rassegno a non vederle mai più. Passa qualche istante ed eccole risalire la china, meravigliose nel loro volo leggero. Si dirigono verso un fiume ancora impetuoso, che ha smesso da poco di essere cascata e riprende il suo corso, in realtà mai interrotto.

Secondo la leggenda guaranì, Iguazù fu creato da un dio geloso dell’amore tra Naipù, una donna bellissima, e il suo amante Caroba, Per sfuggire all’ira della divinità, i due scapparono lungo il fiume in canoa, ma trovarono la morte in quelle cascate create appositamente per ucciderli. Lui divenne albero, lei roccia e i due rimasero lì, abbastanza vicini per guardarsi, troppo lontani per amarsi.

Se si visita il lato argentino delle cascate, non si riesce a resistere al richiamo di vederle dalla passerella della Garganta del Diablo. Si è circondati da un’acqua così bianca da accecare gli occhi, tra schiamazzi di turisti eccitati e nebbiolina fitta che inzuppa capelli e vestiti. A un certo punto, è quindi una buona idea allontanarsi, per andare a vedere lo spettacolo degli innumerevoli muri d’acqua da un’altra prospettiva. Ed è lì, con il fragore per niente attenuato dalla distanza, che noto una roccia dal volto umano, con due braccia protese. Rivolte verso l’uomo amato? Chissà.


Un nasone, due braccia asimmetriche ma comunque visibili. Dal vivo era molto più evidente ed è giusto così

Le cascate sono divise tra Brasile e Argentina, avverto pena e vergogna verso la natura umana, spesso capace di ribaltare il senso naturale delle cose. Perché un fiume dovrebbe delimitare un confine, anziché essere luogo di scambio ed incontro, come pure è sempre stato nell’antichità?

Oggi per andare da un lato all’altro bisogna esibire il passaporto, pagare un altro ingresso. Ovviamente non si resiste nel fare paragoni: meglio il lato brasiliano o quello argentino? Da quest’ultimo si è più vicini, ma è dal primo che, forse, si apprezza l’estensione di Iguazù.

Pensare che fino agli anni ‘70 c’era un luogo ancora più grandioso. Me lo dice Cesar, uno dei primi paraguaiani con cui scambio due parole. Si chiamavano cascate del Guairà, erano le più impetuose del mondo. Affondate per via della diga di Itaipù, altrettanto impressionante creazione ingegneristica e che accende la luce in Paraguay e nelle metropoli della costa carioca.

Un nuovo paese si aggiunge a quelli già visitati. Prima di andarmene, associo l’Argentina a uno scolaro indisciplinato, chiassoso e vivace. Ma pure dal cuore buono, sincero ed entusiasta. Di quelli che quando è il loro turno all’appello e alla prof si dice assente, se ne avverte la mancanza.


Un mese e una manciata di giorni alla fine del viaggio, la nostalgia accarezzata nei giorni precedenti a Buenos Aires è un ricordo lontano. Prevale la voglia di rimettersi in strada, specie in un paese, il Paraguay, che racchiude il Latinoamérica dei primi mesi. Strade asfaltate come si può, incrociate da piste di terra rossa. Implacabili venditori ambulanti che salgono sul bus ad ogni semaforo. Le fermate a chiamata: basta dire all’autista lasciami dietro a quella casa, o subito dopo l’incrocio e così via.

Il Paraguay come conferma dei tanti pensieri, forse banali ma persistenti, sfiorati all’inizio del viaggio e poi diventati via via convinzione ben radicata. Con gente più umile o, diciamolo chiaramente, molto più povera e, forse, per questo ancora capace di accontentarsi. Certamente meno stressata, senza recare sul volto i segni della sofferenza indicibile percepita nelle metropoli di Cile e Argentina.


Arrivo a Trinidad, prima vera meta di questi pochi giorni paraguaiani. Un caldo immobile si mangia la strada, mi aggiro alla ricerca di una posada, intorno a me solo qualche ragazzo in sella a una moto. Procedono a passo d’uomo, non negano mai un saluto e molto spesso sorridono. Manu, la signora da cui vorrei dormire, mi dice che da qualche tempo ha smesso di ospitare gente. Mi offre comunque un tereré ghiacciato, con yerba mate schiacciata poco prima, come testimonia il bel mortaio appoggiato sulla panchina. La signora ha dentro di sé della rabbia sincera per quello che i brasiliani, a suo dire, hanno fatto nel suo paese più di 150 anni fa, durante la guerra della triplice alleanza. “Bruciarono i bambini, ma prima o poi la pagheranno”. Poi mi spiega che, prima del conflitto, il Paraguay era uno degli stati più avanzati del continente. Cerco, come già successo in passato, di capire perché in questa terra si sedimenti così tanto il rancore, e fatichi ad attecchire la solidarietà nel nome delle radici comuni. Lei non capisce, scuote la testa. E io ripenso alle parole di Pablo a Buenos Aires. Nel secolo scorso, in alcuni paesi, si stava provando ad andare verso un’altra direzione. Ma poteri più o meno occulti soffocarono con ombre spesse e indelebili una luce ancora troppo soffusa per poter brillare. La chiamarono operazione condor, e chi ha visto volare in cielo il grande rapace lo sa: la grandezza delle ali, il suo colore nero corvino sa abbagliare e generare spavento. Terreno fertile per la genesi di dittature spietate.


Lungo le strade di Trinidad, Paraguay

Non trovo un posto economico dove passare la notte, sono costretto a tornare da una signora tedesca a cui mi ero rivolto un’ora prima. Cordiale, ma poco incline al sorriso, con una certa somiglianza con l’ex cancelliere Angela Merkel. Alla mia richiesta di sconto risponde con un no severo e senza appello. Dale, le rispondo io. Dell’Argentina mi porto dietro questo intercalare e, al ripensare a tutti gli acccenti abbracciati in questi mesi, chissà che ne sarà del mio spagnolo. Qui in Paraguay si parla più cantilenato, alla brasileira. Ci pensavo due sere fa, a guardare un improbabile dibattito elettorale sulla televisione nazionale. Sembrava un avvincente torneo di tresette, con i potenziali onorevoli vestiti in camicie informali a maniche corte, da pescatori. Un bicchiere di vino rosso per ogni partecipante e l’immancabile sedicente esperto straniero per dare un po’ di spessore alla conversazione.

Crollo in un sonno profondo, sereno. Il giorno dopo faccio una colazione abbondante sotto lo sguardo severo della Merkel e del suo compagno, intento a sorseggiare l’immancabile tereré.

Ho tempo e voglia di parlare con un amico. Un anno fa, di questi tempi, ci conoscemmo per la prima volta.

Si discute a tutto spiano di viaggi, vita e consapevolezze. Gli racconto della cascata e di quanto ho pensato ieri quando, finalmente solo, mi godevo lo spettacolo del Salto del Monday. Povero Salto, non se lo fila nessuno, schiacciato com’è dalla concorrenza della vicina Iguazù. Mentre contemplavo l’acqua dall’alto, che scorreva sempre più veloce prima di cadere nel vuoto, pensavo a come ci si deve sentire in quel momento. Paura, ma pure irrefrenabile voglia di mettersi in movimento. Spetta a noi decidere chi vincerà tra i due diversi stati d’animo. .

Marco dice di avere capito la metafora, e anche se è una telefonata senza video lo vedo sorridere.

Essere acqua che diventa cascata. E poi ancora più giù, tornare parte di un fiume a cui non si è mai smesso di appartenere.


Iguazù


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