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  • Immagine del redattoreAlitaki

Il Paraguay e un tereré come premio


Lungo le strade della campagna di Trinidad

Del Paraguay vorrei dire molte cose. Di certo molte di più di quelle viste nei sei giorni scarsi di permanenza nel paese. Avrei pure qualche dubbio, che magari chi è alla lettura potrebbe aiutarmi a dissipare. D’altronde se il giovane Holden non sapeva dove andassero a finire le paperelle, io posso chiedermi (e chiedervi) perché una stella risuona così familiare, non trovate?

Ma andiamo con ordine.

In Paraguay non c’è molto da vedere. A guardarlo sulla cartina, il paese appare minuscolo, specie se rapportato agli standard latinoamericani. Con un’estensione di poco maggiore all’Italia e circa sette milioni di abitanti - perlopiù concentrati nella zona sud-orientale - questa nazione è spesso ignorata anche dai viaggiatori più incalliti.

Eppure, in Paraguay c’è una regione, il Chaco, su cui ho sentito molte storie a riguardo. La prima che si tratterebbe dell’ultima vera frontiera del Sud America. E, per questo motivo, ho pensato seriamente di cambiare rotta e programmi per quest'ultimo mese di viaggio. Poi, mannaggia a me, l’indole rigorosa da vergine ascendente vergine ha prevalso.

Chaco è pure il nome della guerra combattuta e vinta contro la vicina Bolivia. Anni Trenta del secolo scorso, ennesimo scontro tra nazioni nate da divisioni sommarie, stabilite a tavolino da sovrani e regnanti oltreoceano. Ma, si sa, quando il paese è giovane bisogna creare simboli e eroi. Ed ecco perché il Chaco, in Paraguay, è ovunque. Dai nomi delle strade al Pantheon di Asunciòn, dove sotto una cupola costruita su modello di quella di Carignano a Genova, riposano i resti dei generali della guerra. Giacciono vicino a quelli del presidente Francisco Solano Lopez, artefice - a detta di molti - della più grande tragedia nella giovane storia dello stato paraguaiano. Quella volta la guerra, un’altra, fu contro Brasile, Argentina e Uruguay. La vittoria della Triplice Alleanza - dal nome del patto stretto tra i tre paesi - fu schiacciante e rabbiosa. Morirono l’ottanta per cento degli uomini: a fine conflitto, nel 1870, in Paraguay ne rimanevano solo 25.000, perlopiù vecchi e bambini. Dopo la vittoria, i Brasiliani si installarono nella capitale per parecchi anni, rendendosi protagonisti di uccisioni sommarie e, non contenti, privarono il Paraguay anche della sua memoria. Gli archivi di stato vennero infatti sequestrati e portati a Rio de Janeiro, dove rimangono tuttora secretati. Il Paraguay dovette inoltre cedere a Brasile e Argentina ampie zone del suo territorio, rinunciando, per esempio, alle cascate di Iguazù. La potenza dell’acqua, che ben presto divenne fondamentale per produrre energia, divenne appannaggio delle due nazioni confinanti, e ancora adesso Brasile e Argentina fanno il buono e cattivo tempo quando si tratta di ripartire i quantitativi di corrente prodotti dalle enormi centrali idroelettriche costruite al confine con il Paraguay. A sentire la gente di Asunciòn, qui si paga il doppio, se non il triplo, di bolletta.

C’è amarezza, in Paraguay. Quando una signora settantenne mi assicura che ci sarà giustizia per i brasiliani - “sulla terra o in cielo”, mi dice - capisco ancora una volta quanto sia difficile, per il Latinoamerica, sviluppare un senso di appartenenza collettivo.

Appena giunto a Ciudad del Este, brutta città di confine in cui fioriscono i centri commerciali a uso e consumo per il vicino Brasile, affiorano i chiari segnali di una povertà sistematica e radicata. Le strade sono disseminate di buchi, gli edifici sono spesso strutture fatiscenti e un tassista, nel rispondere alla mia domanda su come vanno le cose, mi spiega la situazione. “Qui lottiamo per sopravvivere, come sempre”.

Non stento a crederci, sento riaffiorare sulla pelle quel senso di insicurezza, e pure quella certezza di essere straniero, entrambe già provate all’inizio di questo lungo viaggio.


Per una volta, sono io a scarrozzare qualcuno!

Eppure, c’è dell’altro in Paraguay. Me ne accorgo salendo sul bus il giorno dopo. Quella caotica ma efficiente organizzazione di trasporti già apprezzata in Colombia, Ecuador e Perù, torna alla ribalta. A ogni semaforo salgono a bordo venditori ambulanti di ogni tipo e io, incantato, a godermi il ritorno della spontaneità. Dopo aver ammirato le rovine delle vecchie missioni gesuitiche a Trinidad, è il turno di Encarnacion. Città sdraiata sulle rive del Guarani, fiume immenso da cui svettano le seducenti luci della vicina Posadas, già in Argentina. Forse stordito dal caldo asfissiante, commetto l’errore del turista travestito da viaggiatore. Cerco testardamente qualcosa da vedere a tutti i costi, non capendo che basterebbe fermarsi e guardare i ragazzini che escono da scuola. O i due vecchietti che si bevono l’immancabile Coca Cola in un angolo di una strada, immobili nelle loro pose che potrebbero essere state assunte da qualche minuto o dieci anni. Perché questo, a volte dovrei ricordarmelo, non è un film, ma un viaggio. Non ci sono spettacoli di cui godere, ma solo una pioggia improvvisa, salvifica da cui ripararsi sotto un tendone bucato. Tre ragazzi fanno altrettanto e quando me ne vado ci scambiamo sorrisi e strette di mano, come se fossimo amici. Così, la sera, quando il sole che sembrava essere stato inghiottito da una coltre di nubi ricompare per un ultimo, fugace e infuocato saluto, mi sento quasi premiato da un dono non meritato.

Il tramonto sul Paranà ad Encarnacion

Ad Asunciòn, il giorno dopo, ho imparato la lezione. Mi godo i poliziotti in fila insieme alla gente comune. Prima di prendere servizio scelgono con cura quale erba farsi pestare nel mortaio. Andrà a finire nel tererè: molto di più di una semplice bibita rinfrescante, è il simbolo e l’orgoglio del paese, ultimo disperato ancoraggio di un popolo alle sue tradizioni.

Asunciòn è una capitale che non fa niente per essere tale. Con qualche palazzo più decente dell’altro nascosto sotto la consueta giungla di cavi elettrici. I giardini del palazzo del governo perennemente chiusi, presidiati per qualche motivo da decine di forze dell’ordine. Qui e là, spuntano bandiere difficili da riconoscere. Sono della Repubblica di Taiwan, che da decenni finanzia nei modi più disparati il piccolo paese sudamericano, dimostrando così gratitudine per essere rimasto uno dei pochi a riconoscere il governo di Taipei. Ma a dicembre ci saranno nuove elezioni, e la situazione sembra destinata a cambiare.

Lo ribadisco: in Paraguay non c’è molto da vedere ma, arrivato a questo punto del discorso, posso completare la frase dicendo che c’è tantissimo da guardare. Basta essere pazienti, sapere aspettare. Così, quando mi ritrovo a smontare la cassetta di un gabinetto, so già che arriverà il momento della ricompensa. Mi trovo a Villa Elisa, sobborgo popolare della capitale, e sopra di me il corpo grassoccio di Ulisse gocciola di sudore. Si tratta del papà di Evelyn, la ragazza che mi ospita per due giorni a casa sua. Ricciolo unto che fa molto anni ‘90, occhiali da sole sempre sul viso e una parlata sguaiata, alla Maradona, Ulisse inizialmente è diffidente, Poi, dopo essermi offerto come aiutante, si scioglie e parla a ruota libera. Mi racconta di quando, perseguitato dalla dittatura del generale Stroessner (ennesimo regime resosi protagonista delle consuete sparizioni, violenze e omicidi) fu costretto ad abbandonare il paese e tornare in Uruguay. Fece più di mille chilometri senza uno straccio di documento, soldi o persone a cui chiedere aiuto.


Scorcio della riduzione gesuitica di Jesus, vicino a Trinidad

Il giorno dopo, il mio ultimo pieno in Paraguay, passeggio lungo campagne sorprendentemente verdi a mezz’ora dal centro di Asunciòn. Evelyn ha deciso di portare con sè Raymi, il suo figlio di tre anni e che ripete a pappagallo tutto quello che dico, e pure con l’accento italiano. Ad Aregua mi imbatto nell’ennesima stazione dei treni abbandonata di questo Latinoamerica che non ha potuto occuparsi delle sue infrastratture ferroviare. Nel miglior dei casi sono musei sonnacchiosi, in molti altri sono ruderi fatiscenti. Poco più in là, sulle sponde di un lago, sorseggiamo ancora una volta del buon tereré. Il giorno dopo salgo su un bus stipato all’inverosimile di persone, borsoni e valigie. Ogni buca della strada è un continuo palparsi senza volere, e ben presto mi accorgo di essere l’unico a chiedere scusa. L’autista, imperscrutabile, continua a muovere il volante come fosse il timone di un vecchio vascello. Di tanto in tanto, schiaccia il pulsante del termos per farsi un altro goccio. Di cosa? Di tereré, ovviamente!


La stazione di Areguà

In attesa di partire per un altro viaggio, l’ennesimo, lungo più di 24 ore che mi riporterà verso l’Argentina, provo a mettere insieme appunti e spunti di questi pochi giorni in Paraguay. Un paese che mi ha riportato alla luce vecchie scontate - ma radicate . convinzioni. Come che la vita, sebbene infinitamente più dura, qui sia vissuta con più leggerezza.

Quando arrivo alla frontiera ho tempo per un’ultima occhiata alla stella a cinque punte sistemata al centro della bandiera paraguayana. Circondata da due ghirlande, una di ulivo e l’altra di palma. Ora, nel nostro caso la palma è sostituita dalla quercia. Ma, per il resto, le due effigi sono pressoché identiche, e basta tirare fuori il passaporto per averne la conferma.

Eccoci quindi alla domanda del secolo: Perché la Républica del Paraguay e quella del Bel Paese hanno lo stesso simbolo?

Dato l’avvicinarsi dell’estate, offro un buon tereré a chi saprà rispondermi.


Osservate il simbolo al centro della bandiera. Non vi suona familiare?


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