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Mezza vita fa



I ricordi vanno maneggiati con cura. Come con le videocassette di una volta, che a furia di vederle si consumava il nastro.

Oggi è stato un pomeriggio diverso. Niente città da perlustrare, monumenti da filmare o persone da conoscere. Oggi ho preso un treno per Sibari. La prima e unica volta che arrivai in questo non-paese (la stazione è nel nulla e Sibari non è nient’altro che un pulviscolo di case, un supermercato e un ristorante con menù fisso) era l’inizio dell’estate del 2004. Sedici anni fa.

Ricordo il tono della voce farsi più alto tra i miei compagni di viaggio nell’ultimo tratto in treno. Eravamo dei ragazzini, spaventati ed eccitati dinanzi all’ignoto. A Sibari andavo per fare l’animatore, un vecchio sogno che cullavo fin da quando, bambino, passavo le vacanze in Sardegna con i miei genitori. Ma Sibari era un po’ diverso. Per prima cosa la stazione. All’arrivo ero uscito da un bugigattolo stretto come un vicolo di Genova, e davanti avevo scorto una Madonnina tra erbacce incolte. Dei signori parlavano in calabrese stretto, uno aveva gli occhiali da sole. Erano le nove di sera e no, non era cieco. Dopo un quarto d’ora di attesa (whatsapp non esisteva, una telefonata e poi a guardarci negli occhi, altro che cazzeggiare sui social) era arrivato un camioncino sgangherato. Lo guidava un tizio ossuto e sudato che non disse una parola. Arrivammo al villaggio che lo spettacolo era alle battute finali. Ai lati del palco c’erano dei buchi tondi, fu da lì che vidi il capo animatore presentare lo staff. “E ora via con i balli di gruppo!”. Mi ritrovai davanti a tante magliette dello stesso colore che si muovevano entusiaste, facevano alzare la gente e sorridevano, sorridevano sempre. Una ragazza mi salutò, mi chiesi chi fosse. Ancora non lo sapevo, ma quello era un momento destinato a rimanere impresso per sempre.

Oggi sono arrivato a Sibari alle quattro di pomeriggio, con un treno composto da un solo vagone. La stazione è stata decisamente rinnovata, e anche la Madonnina può finalmente respirare, libera dalle erbacce di un tempo. La strada per arrivare al villaggio è sempre la stessa, ma vuoi mettere il fascino di percorrerla su una Graziella con una ruota forata? Sono arrivato sudato marcio al punto indicato dal navigatore ma niente da fare, il posto era un altro. Ho chiesto a un guardiano del complesso che, gentilmente, mi ha indicato la strada: altri cinque chilometri. Ho iniziato ad avere una sensazione di familiarità scorgendo in lontananza delle terribili costruzioni svettare nel mezzo della campagna, ma avvicinandomi mi sono sentito nuovamente smarrito. Così ho fatto qualche giro in cerchio, incerto sul da farsi. Una signora si è messa a guardarmi sospettosa, le ho chiesto aiuto.

“Cerco un villaggio turistico dove ho lavorato tanto tempo fa.”

“Tanto quanto?”

“Eh, sedici anni.”

“Ma mica sono tanti sedici.”

Ho sorriso.

“Comunque – ha ripreso lei - il villaggio che cerchi è questo”.

Ho guardato alle sue spalle, c’era un supermercato.

“L’arena è lì dietro, ricordi?”

No, non ricordo. L’ho salutata, sono sceso dalla bicicletta e ho capito.

Il muretto davanti all’oleandro era decisamente più basso di come lo ricordavo. Il cancello per accedere all’anfiteatro era minuscolo rispetto a un tempo! E la bombola gigante del gas? Non c’è più.

Poi li ho visti. I buchi tondi ai lati del palco. O meglio, ciò che ne è rimasto. Ora è un deposito all’aria aperta di rottami di vario genere. Per carità, non che quel villaggio fosse l’emblema della modernità, anzi.

“Salve.”

Una voce mi ha colto di sorpresa mentre naufragavo in preda alla malinconia.

“Salve, io sono uno che ha lavorato qui anni fa e stavo guardando il posto e…”

Il signore, un uomo di mezza età con i capelli lunghi e occhiali da sole troppo grandi, ha cambiato espressione. Si è fatto comprensivo.

“Eh, è cambiato tanto” Mi ha detto sospirando. “Ora stiamo lavorando per cambiare tutto” ha poi aggiunto non dandomi però l’impressione di crederci più di tanto. “Eravamo giovani. Fatti un giro con calma, ciao”.

Ciao, ho detto io quando ormai era già andato via. Mi sono diretto deciso verso una serie di case a schiera. Ultimo palazzo sulla destra. Era lì che dormivamo noi dell’équipe, maschi in un piano e femmine in un altro. Sui gradini delle scale si consumavano inciuci, si litigava, si cazzeggiava. Lì è rimasto tutto uguale: il caldo soffocante, le zanzare che svolazzano indisturbate. Il timer della luce che si spegne sempre troppo presto, e tu che devi ogni volta alzarti per riaccenderlo, così da poterti godere un’altra manciata di minuti di trasgressione.

Ho fatto per andare via, poi ho cambiato idea. Il mare, la spiaggia. Dove si sudava ogni mattina per far ballare la gente, dove una volta ho dimenticato delle bocce di plastica qualunque ma, al pensiero di ricevere una punizione dal capo animatore, sono tornato di corsa, e quando l’ho viste appoggiate al gazebo ho tirato un sospiro di sollievo. La spiaggia dove si andava di notte, e si passavano di mano in mano bottiglioni di coca cola mischiata ai peggiori intrugli alcolici. Le canzoni cantate con voce roca, stanca ma felice davanti al falò.

La spiaggia, pure lei, non è cambiata. E anche il tragitto per arrivarci, decisamente lungo, ma come facevo a farmelo tutto a piedi? Beh, non che con la Graziella sia andata meglio...

Ho guardato l’orologio, le sette passate. Nel frattempo il sole giocava a nascondino dietro a dei nuvoloni bianchi, lasciando comunque filtrare una luce fioca e per certi versi mistica. Il mare della Calabria, liscio come sempre, era ancora trasparente e invogliava al bagno. Mi sono limitato a tastarlo con i piedi, poi finalmente mi sono seduto. Ho smesso di fare paragoni tra ieri e oggi. Niente più video, fotografie. Ho pensato che in tre mesi di animazione non avevo mai notato che oltre la spiaggia ci fosse una montagna gigantesca, proprio a due passi dal mare. Ma forse a quell’età non si notano tante cose.

L’esperienza in villaggio mi cambiò molto. Scalfì un po’ della timidezza dell’infanzia. Mi insegnò a cavarmela da solo, perché dopotutto è stato lì che ho fatto il bucato per la prima volta, ad esempio. Lì, in quel villaggio, imparai il significato della parola lavoro, quello duro e del sudore sotto il sole. In quel villaggio mi sono innamorato, per la prima volta. E nel viaggio di ritorno da Sibari a Genova piangevo come un vitello. L’estate era ormai finita e io temevo che, con lei, si sarebbe spento anche tutto il resto. Non andò così, ma questa è decisamente un’altra storia. La storia di oggi si conclude su una spiaggia calabrese poco prima del tramonto. Il mare da trasparente ora si è fatto blu scuro.  Una famiglia con due bambini poco lontani. La mamma mi guarda più volte, forse incuriosita dal mio essere contemplativo.

Dopotutto, per chi ne ha trentadue sedici anni non sono poi così poco.

Sono mezza vita fa.

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