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Lo que dejaron, la sombra de lo que robaron



“Il presidente? Ma quello è un poveretto. E, bada bene, te lo dico subito: io sono e rimango di sinistra”.


Victor mi fissa negli occhi, ma quando si incazza fugge con lo sguardo verso la montagna. “La vedi quella? É piena di ferro! In questo paese potremmo vivere solo di quello che c’è nel sottosuolo. E invece...”

Invece arrivo in Perù il giorno di un maldestro, accennato colpo di stato. Verrebbe da ridere, a sentire la storia del presidente pedro Castillo, bloccato mentre era in fuga dal palazzo presidenziale pare, anche, a causa del traffico micidiale di Lima. In fondo noi facciamo così: giudichiamo con i nostri occhi supponenti, fintamente caritatevoli, divertiti da questi regimi da operetta sparsi nel mondo.

Passano poche ore, va in scena va la rabbia della gente, e non c’è niente di più vero. Lo sono i morti che iniziano ad ammassarsi sulle strade. Uno, due, tre... Secondo i nostri canoni, sarebbe già una tragedia nazionale. Televisioni, social media, parlerebbero solo di ciò che sta accadendo. Ma tranquilli: succede in Perù, paese tutto sommato lontano, di cui ci ricordiamo per il viaggio di nozze a Machu Pichu, e per l’immancabile fotografia con un lama, che poi manco sappiamo la differenza con l’alpaca. E mentre le proteste assumono la forma di blocchi stradali, con manifestanti sempre più incazzati che invadono aeroporti, distruggono stazioni della metropolitana, mi accorgo che a casa mia nessuno ne parla. Ricevo solo qualche messaggio preoccupato quando viene fuori la notizia di alcune ragazze, ovviamente italiane, intrappolate in un bus a causa delle manifestazioni. Il caso pare essersi risolto dopo poche ore, e meno male. Ma di tutto il resto non si dice niente? Solo qualche servizio distratto, un titolo a metà pagina delle principali testate, e solo quando il numero dei morti raggiunge la doppia cifra.


Mi sento quantomai straniero a viaggiare lungo un paese diviso, per l’ennesima volta incastrato in una crisi istituzionale prima, e sociale poi, senza fine. Vorrei capire meglio, e non certo prendendo inconsapevolmente un caffé alla salute del presidente deposto. Quella sera, a Chachapoyas, mi avvicino incuriosito a un gruppo di persone con in testa l’immancabile sombrero a falde larghe. Vedo candele per terra, c’è una bella musica indios nell’aria, e mi viene spontaneo chiedere chi è quel pover uomo, sicuramente deceduto, ritratto in una grossa fotografia. “Ma quale morto”, mi dice un signore. “Lui è Pedro, il nostro presidente!”.

La gente, in Perù, assiste alle proteste con serena rassegnazione. Come se tutto questo fosse parte della normalità. A volte ha pure voglia di scherzarci sopra. “Hai saputo”, dice un vecchietto al suo vicino di posto su un bus. “A Pedro – l’ex presidente è di estrazione contadina, e si rifa a ideali di sinistra - l’hanno messo nella stessa prigione di Fujimori - il dittatore di destra, padrone del Perù per dieci anni. Va a finire che diventano amici!” Ridono.

Spesso, però, il sorriso in Perù è solo un’ombra su visi altrimenti severi. Nelle espressioni della gente, specie nelle città, vedo tutta la difficoltà di barcamenarsi in una vita dura come un macigno, dove tutto è più insensamente difficile. Anche ritirare i soldi dal bancomat può voler dire fare delle file di ore, spesso sotto il sole.

A Jaen, cittadina orripilante a due passi dal confine con l’Ecuador, inizia il nostro viaggio a bordo di colectivos dai sedili scomodi e autisti spericolati. Mi rifugio nella natura, forse per sentirmi libero dai sensi di colpa per quanto succede. In spagnolo per definire un’unica, poderosa cascata si usa un termine italiano ormai desueto: cateratta. Viene dal greco, vuole dire cadere giù. E alla cateratta de gocta l’acqua viene giù con un salto di oltre quattrocento metri. Inzuppa senza fare rumore capelli e vestiti, provocando più di un brivido di gratitudine. Latinoamerica, terra di mistero e scoperte ancora a portata di mano: conosco un ragazzo francese che sogna di trovare qualche città inca sperduta nella foresta. Mentre lo dice, un signore del posto ci spiega che la cascata davanti a noi è stata localizzata solo trent’anni fa.

Arriviamo a Cajamarca dove è un piacere, la sera, camminare per le vie piene di locali e ristoranti, con un’aria frizzante che ben si addice all’atmosfera natalizia. Le proteste sono un borbottio distratto che fuoriesce dalle televisioni. In una strada fuori dal centro, con il solito traffico come colonna sonora, mi stringo forte Alessandro. É tempo di salutare il mio compagno di viaggio e, senza saperlo, di avventurarmi lungo un tragitto dalla destinazione incerta, quasi agognata. Sono sempre più i blocchi lungo il paese, e per arrivare dovrò attraversare strade sterrate di campagna. Dormirò a casa di una signora a Mollebamba, dove i passanti mi salutano con rispetto e poi si mettono a parlottare a voce bassa. Avrò, come vicini di posto sul bus, pastori con in braccio un agnello, e per un’intera mattina starò col fiato sospeso, pregando che il pullman non scivoli già da un precipizio distante pochi centimetri. Poi, dopo un passaggio datomi da un fruttivendolo, arriverò nella mia Caraz. Paese ai piedi della Cordillera Blanca, scelto come buen retiro per il periodo natalizio. Qui lavorerò, scriverò, camminerò lungo le vallate più interne e, un giorno, partirò con una tenda nello zaino. Tre giorni ad alta quota, in piena solitudine – ah no, ci sono pure dei tori al pascolo - sotto una pioggia quasi incessante e che, una sera, fa il miracolo trasformandosi in neve. A Caraz riscopro il valore del fermarsi, di vivere lento. Mi innamoro dei sorrisi dei contadini che regalano pane appena sfornato, sarò invitato a cena da persone con un bel luccichio negli occhi. Ed è per questo motivo, e pure per tanti altri, che la considero pure un po’ mia, la cara vecchia Caraz.


Nel frattempo, le proteste si sono allentate. Parto una notte e il giorno dopo faccio tappa a Lima. Terza volta nella capitale peruviana, e per la prima c’è chi mi aspetta con commozione e trasporto. Andrea, conosciuto in un momento difficile per entrambi. Andrea che si lascia abbracciare per alcuni, intensi minuti. Che mi porta a vedere il mare, da cui mancavo da mesi. Andrea la cui vita si è incrociata con la mia per sei giorni in totale. Un così breve intervallo di tempo può bastare a far nascere e crescere un’amicizia fraterna? I nostri occhi, commossi al momento dei saluti, dicono proprio di sì. É già tempo di ripartire, pare che dopo la sosta natalizia riprenderanno i blocchi. Percorro un lungo tratto della Panamericana, e dal finestrino il Pacifico bagna incessantemente un paesaggio arido, di cui non si vede la fine. Mi ricorda quelle persone dall’animo puro e ostinato, che non smettono mai di credere nella forza dei loro sogni. Dopo quasi 24 ore di pullman, scorgo le luci di una sorta di navicella spaziale. Ah no, è la moderna, orribile frontiera col Cile. E io che vorrei godermi il tramonto, infuocato e dolcissimo, come quello già ammirato il giorno prima, in partenza da Lima.


Invece non c’è nulla da fare. Invece, come mi ha detto quel giorno Victor, spesso bisogna arrendersi. Non ci sono più speranze per il Perù. Una terra ricchissima, ma ormai diretta verso un futuro senza luce. Così la pensa lui. E quando gli chiedo qual è stato il motivo di questa deriva, lui non ha dubbi.

“L’istruzione e, se vuoi, ancora prima l’educazione alle persone. Sai, io mi ricordo cosa si diceva una volta: un indigeno istruito è un indigeno pericoloso. Non è cambiato niente”.

Poi Victor si è alzato, tornando nell’ombra del suo ristorante, costruito in mezzo alle baracche. Poco più in là, la polizia ha fermato un camion. Pare che non avesse i documenti in regola ma, se il signore ha la cortesia di venire un attimo dentro, sistemiamo tutto.


Davvero è così questo Latinoamerica? Davvero è solo il poco di ciò che hanno lasciato, degli avanzi di ciò che non hanno rubato?

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