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La parte più bella di Genova




Nino non è venuto con me.

- Scusami tanto, ma con questo freddo mi prendo un accidente.

Ma vaffanculo, ci sono sei gradi e mica hai ottant'anni. E me l'avevi promesso, quella sera. L'ultimo giorno lo passiamo insieme. Ma che cos'ho che non va? Perché non riesco pure io a volere un po' di meno?

Ovviamente non dico nulla di tutto ciò. Faccio un sorriso storto e mentre Nino dice che ci sentiamo dopo, che magari ci aggiorniamo per pranzo, io sono già in coda per salire a bordo. Il motore del battello borbotta gasolio, per alcuni minuti navighiamo verso l'orizzonte, poi ci incanaliamo verso il centro.

È che in questa città recito una parte.

Superiamo l'aeroporto di Sestri. La lunga diga foranea ha una piccola apertura da cui si vede oltre, vai a sapere perché.

La parte dell'avventuriero. Quello dai mille viaggi, e che piacere conoscerlo a cena di amici una sera. Tra racconti e battute ci farà intrattenere. Magari proveremo pure un pizzico d'invidia, ma una roba così, estemporanea, di cui la mattina non avremo più tracce. La mia parte è dell'uomo risoluto, che sa cosa vuole dalla vita e non ci sono tentennamenti, né cambi di rotta, come il battello che mi porta verso il centro della città. E quando mi prende lo scoramento, quando ho ripensamenti o semplicemente sono indeciso sul da farsi, causo sgomento. Ma come, anche lui ha di questi problemi? Eh già. Pensare che io avrei pure una certa voglia, nemmeno tanto velata, di normalità. A modo mio, certo, in un modo che forse devo capire ancora fino in fondo. È che qui, a Genova, nemmeno io riesco a capirmi.

Un vecchietto che assomiglia a Garibaldi ha recuperato la cima che qualcuno ha gettato in acqua. Se vuoi vedere Genova devi vederla dal mare. Un'altra delle mie frasi preconfezionate, che mi sento in dovere di dire ogni volta che ammiro la mia città da questa prospettiva. Vorrei pure godermi di più il fondale irregolare e colorato degli edifici del centro, lo scoglio solitario e affrescato di Palazzo San Giorgio, ma come sempre la Sopraelevata taglia tutto quanto in due. Per fortuna che una volta a terra non ho dubbi su dove andare. Nei vicoli il cielo è un'idea lontana, offuscata da persiane diagonali e muri sbilenchi. Imbocco il vicolo da dietro, ma poco importa. La porta piena di scritte e graffiti è sempre chiusa. Quando ancora lavorava era una delusione trovarla così, ora mi ci sono abituato. Ci si abitua a tutto, forse. Ma vorrei non abituarmi allo stupore per le sorprese. Come quando, in un pomeriggio di dicembre, stavo indugiando davanti alla porta e qualcuno l'ha aperta per me. Dentro è tutto cambiato, pazienza, è stato bello rientrare in bottega proprio a un anno dalla sua morte. E il destino ha pure voluto che mia madre passasse da lì in quel momento. L'ho vista salire quei tre scalini di marmo con faccia sbigottita, quasi spaventata. Poi siamo andati a bere una cosa nel bar dove andava lui.

Oggi porta chiusa ma di nuovo, non importa. Sono fragile di certezze, carico di emozioni, sento che riuscirò a parlare un poco con lui.

- Perché hai tutta questa rabbia dentro?

No, decisamente non avrebbe mai detto una frase del genere.

- Dì un po': dormi sempre per terra come i barboni?

Ecco, molto meglio.

- Senti, mister. Non è che finalmente hai deciso di non far penare più tuo nonno? E di fermarti un pochino?

Ci siamo.

- Niente, niente da fare. Sei proprio passo!

Ignoro le provocazioni, mi limito al retrogusto che non è per nulla amaro. Chiedo se gli va di andarsi a bere una spuma al bar.

- Ora non posso, ho da fare.

Ma sì vede che è sinceramente dispiaciuto. Si vede che avrebbe voluto prenderla sul serio quella spuma con me. Allora gli dico di stamattina, del risveglio sotto un'alba bellissima, con la Corsica che spuntava in mezzo all'azzurro.

- Ah sea?

Perché lui, quando era stupito, non diceva "sì". La vocale la strascicava, forse per dare maggiore enfasi alla sorpresa. Gli dico che c'era pure Capraia, verso levante. E che è stato un vero spettacolo.

Allora lui si toglie il cappello con la visiera piatta e si gratta la nuca. Fino a quel momento stava prendendo le misure con uno dei suoi innumerevoli metri da falegname. Lo appoggia sul tavolo dove ci sono pinze, chiodi e martelli, tutto alla rinfusa. Mi guarda dritto negli occhi. Una volta qualcuna mi aveva detto che le sopracciglia sono arcuate come le mie, e mi aveva fatto felice.

- Ma perché te ne vuoi andare?

Così tanta dolcezza mi crea un nodo troppo stretto intorno alla gola. Così tanto amore da ricordarmi quando ero un bambino e si presentava all'ora di pranzo con le tasche piene di figurine. E trovava sempre il tempo per attaccarle insieme a me. Lui era come me.

Balbetto. Lo faccio sul serio, mentre sono davanti a un portone chiuso, da solo, con la gente che passa e mi guarda male. Provo a dire qualcosa. A Genova non sono io. A Genova mi sento di recitare una parte. E a Genova mi fanno sentire fuori posto. Sorprendentemente le parole escono fluide, veloci, ma altrettanto veloce si appanna l'immagine di quella bottega. Lui non c'è più, non c'è più il metro appoggiato sul tavolo, non sento più la sua mano grattarsi la nuca. E nemmeno quella voce grinzosa, inspessita da decenni di fumo.

Io qui sono solo!

L'ho gridato forte, e una signora che teneva per mano un bambino si è girata a guardarmi. Pareva spaventata, il bambino era solo incuriosito. Accarezzo ancora una volta la maniglia che c'è sotto la serratura, poi vado verso l'altra parte del vicolo. È questa la vera strada per andare in bottega. Dove c'è un cartello di chissà quanti anni con scritto solo veicoli a braccia, anticipato da una piazza con due chiese affacciate che poi sono tre, e con dei panettoni di metallo per non far parcheggiare. Il cielo qui è un'idea più concreta. Oggi è azzurro o forse celeste, come avresti detto tu. Uno dei pochi colori che entrambi sappiamo riconoscere. Mi piace pensare che ti sia fermato pure tu a guardare questo scorcio. E sono certo che ora sei qui con me, ti sento accarezzarmi la testa, e pure più dentro, pure più a fondo. Penso, felice, che questo scorcio di Genova non sarà mica tanto cambiato. E i finestroni della chiesa sulla sinistra l'hai fatti con le tue mani. Una volta mi hai raccontato che stavi per cadere mentre li montavi, perché in fondo pure tu facevi delle belinate.


Non sono solo. La parte più bella di me, e pure di Genova, è al sicuro, in quello scorcio di cielo.

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