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A tavola con i ricordi


Avete presente quelle osterie anni 50, con le tovaglie odorose di vino, i piatti di ceramica spessi e i mestoli appesi alle pareti? Quelle dove a cucinare c’è sempre un donnone, magari con un forte accento romano e che al collo porta un grembiule sporco di sugo?

Beh, ce l’avete presente?

Io no.

No, davvero, mi dispiace ma non ci posso far niente. Sono nato troppo tardi per aver mangiato in posti del genere. O, almeno, questo era quello che pensavo fino a quella sera.


Quella sera l’inverno bussava alle porte, con la tramontana che pareva in gran forma per i mesi a venire. Avevo pensato bene di rompermi un osso o qualcosa del genere. Rinchiuso in uno stanzone d’ospedale, sconsolato, attendevo il mio turno, circondato da vecchietti mugugnoni.

“Torni domani, se ne vada pure a casa”, mi aveva detto una voce stanca.

Era stata una liberazione. Almeno la notte nel letto, nel mio letto, lontano dagli assilli di ultraottuagenari, peraltro non troppo inclini al dialogo. Giusto il tempo di fare una telefonata e Stefano si era precipitato da me, pronto a raccogliere un povero zoppo.

Stefano è un mio amico. Non uno qualunque. Stefano è uno che chiami nel mezzo della notte e non ti chiede il perché. Non ti dice “tu sei pazzo”. Non ti rompe le balle perché sei un incosciente. Lui ascolta, sempre. E quando hai finito emette solo un sospiro, breve e leggero. Poi, con voce calma e tranquilla, si limita a dire: “Ok, arrivo”. E, in un batter d’occhio, lui, arriva.

Stefano è buono, buono come il cioccolato spalmato sul pane. Stefano, a quei tempi, voleva solo una cosa: trovare una donna da respirare, vivere, amare.

Quella sera ce ne stavamo rintanati dentro la macchina, a ridere e scherzare delle mie sfighe. Poi ci eravamo scambiati una rapida occhiata. Una sola, era bastata. Senza aggiungere nient’altro avevamo capito che entrambi avvertivamo lo stesso, primordiale bisogno. Dovevamo mangiare.

Non si trattava di un leggero appetito da sfizio vizioso, che puoi dormirci anche sopra, magari mentre pensi a dell’altro. E non era nemmeno una voglia di gustare qualcosa di particolare.

Fame, fame e ancora fame. Fame – si intende - non solo di cibo ma di parole, di compagnia. Fame di vivere ancora un pochino quella notte, giusto per non lasciarle addosso l’odore schifoso di quell’ospedale.

All’epoca vivevo dalle parti di una piazza. Era buia, stretta e sporca. Nel mezzo, davanti ad un edificio con una croce davanti, troppo moderno per essere chiesa, c’era un ponte della ferrovia che come un bisturi tagliava il quartiere a metà, entrando nelle viscere di alti palazzi. Subito prima del ponte, sulla sinistra, quella sera Stefano aveva intravisto una luce gialla sottile. Illuminava una scritta rossa e sgangherata. Trattoria e Pizzeria da Mario – diceva.

“Conosci?” - mi aveva chiesto, incuriosito.

“No” – avevo risposto.

“Entriamo” – avevamo deciso.

I vetri dell’ingresso erano opachi, forse unti. La maniglia, scricchiolante, aveva ormai perso le ultime tracce del suo ottone e di certo non intendeva fare qualcosa per ritrovarle. Una volta varcata la soglia, ad accoglierci era stata un’aria stantia, intrappolata da chissà quanto tempo lì dentro. Il suo aguzzino era un uomo con pochi capelli ancora attaccati alla testa, tinti di un nero troppo vivace per essere vero. Indossava un maglione girocollo dello stesso colore. Se ne stava in piedi, dietro ad un lungo bancone che correva lungo il locale, a disporre su polverosi ripiani piccoli bicchieri da vino, la maggior parte con il bordo beccato. Non diceva niente, non salutava, non parlava. Dietro di lui c’era una cappa enorme, che non aspirava il fumo spesso di alcune padelle sul fuoco. Al collo portava una collanina d’oro.

“Mi scusi, si può mangiare qualcosa?”

La mia domanda era stata posta con tono fin troppo cordiale.

Trincerato nel suo silenzio, l’uomo non aveva risposto. Si era limitato a voltarci le spalle, mettere le mani in una credenza nell’angolo e tirare fuori due piatti piani e grandi.

Sì, proprio quei piatti, quelli di ceramica dai bordi spessi.

Avevamo iniziato a riempirli con polpette, focacce, verdure e qualsiasi altro tipo di pietanza, stipata dentro a grossi vassoi disposti lungo il bancone.

Io, dubbioso, guardavo Stefano. Lui, con orrore, fissava piastrelle impiastricciate di un qualcosa di giallo.

Credo che entrambi, giunti a quel punto, pensassimo solo ad una cosa: andarcene.

E invece eravamo rimasti.

Il motivo, l’avrete capito, era solo uno, quello sbrano che ormai ronzava senza tregua nelle nostre teste, più fastidioso di un motore assordante. Come una belva feroce, la nostra fame si dimenava famelica a guardare quei piatti comporsi lentamente, in un susseguirsi di mestoli e odori.

Sulla destra, nell’angolo opposto da dove eravamo entrati, c’era un altro uomo. Aveva due mascelle volitive e ben definite, solo in parte offuscate da un fitto barbone, bianco come la neve che scende di notte. La fronte era solcata da lunghe rughe e gli zigomi erano alti e scolpiti. Nel mezzo del viso c’erano due occhi vispi e attenti, di un turchino accecante. Indossava dei jeans esageratamente stretti ed in testa portava un cappello bianco a pianta quadrata. Vestiva una maglia a maniche corte, rossa come il fuoco che arde.

“Giuseppe Garibaldi” mi aveva mormorato nell’orecchio Stefano.

Il generale guardava senza espressione la mia gamba fasciata. Poi, d’improvviso, aveva iniziato a parlare con fare nostalgico:

“Altri tempi, sa. Mi ricordo ancora il cognome, Biraschi. O forse no, era Palomini.”

“Ma no, cosa dici. Palomini si era trasferito da bambino, è Biraschi” – l’aveva corretto l’uomo dietro al bancone.

Dunque entrambi erano in possesso della parola – avevo pensato con un certo stupore.

“Ad ogni modo” – aveva proseguito il vecchio barbuto – “Biraschi mi ruppe la gamba. Si giocava in quel campo che ora non c’è più, su nel quartiere di San Biagio. Partita tirata sa? Mi aspettava, la canaglia, per farmi del male” Gli occhi ora guardavano in alto. Sospirando, aveva concluso: “E ce la fece, quel maledetto. Fu la mia ultima partita con la squadra”.

“Un po’ come succederà al ragazzo” aveva prontamente sentenziato l’altro, ancora intento a rimpinguare i nostri piatti con cibo preparato almeno due secoli prima.

Ora, io non sono una persona di molte pretese. Quella sera poi meno che meno, afflitto com’ero dal dolore, dalla fame e da una certa stanchezza che ora sentivo montare con forza. Andava bene tutto, la trattoria zozza, il tizio che non parlava, l’altro che spuntava come un fantasma. La probabile intossicazione alimentare che mi avrebbe presto fatto rimpiangere le cure ospedaliere. Ma farsi prendere per il culo da Giuseppe Garibaldi e dal suo soldato colonnello, quello no, era decisamente troppo.

“Sa, ora sono cambiati i tempi. Ora si torna più forti di prima” Avevo prontamente ribattuto, non nascondendo una certa voce stizzita.

Subito non aveva risposto. Poi il vecchietto si era messo a ridacchiare, continuando a ripetere solo due parole:

“I tempi.. I tempi…” Cristo quanto era irritante.

Din.

Il tintinnio del forno aveva segnato la fine del primo round.

“La cena, signori, è servita.”

E che cena.

A ripensare a quello che mangiammo mi viene in mente solo un termine.

Stupefacente.

Come sotto l’effetto di una droga potente, non riuscivamo a smettere di ingozzarci di qualsiasi cosa ci fosse proposta. Tutto, era, semplicemente, squisito. Mangiavamo e basta, senza parlare, senza pensare.

Poi all’improvviso Stefano, mentre azzannava la sua tredicesima polpetta di melanzane, aveva alzato il capo, sino a quel momento rigorosamente chino sul piatto. Senza smettere di masticare si era messo a guardare il vecchino e, con voce curiosa, aveva chiesto:

“Ma quindi, era stato così brutto quel fallo di Biraschi?”

Bum.

Fu come lo scoppio della pistola per dei centometristi. I due erano partiti. E altro che cento metri, quella strana coppia era in gran forma per una maratona.

La partenza era stata proprio lì, nel cerchio di centrocampo in qualche polveroso campo di periferia. Ci era stato spiegato nei dettagli come la ghiaia del fondo del campo si alzasse prontamente in volo alla prima azione di gioco, per poi entrare diretta nei polmoni e restarci per giorni. Si erano evocate vittorie leggendarie e sconfitte devastanti. Ci avevano descritto episodi al limite dell’incredibile, come quando si fece male il portiere e per sostituirlo entrò... un cane. Sì, avete capito bene, un adorabile bastardino che passava da quelle parti. Evidentemente potevano vantare di un’affidabile linea difensiva – pensai.

Poi era venuto il turno della politica. Non quella attuale, tragicomica nelle sue scenate urlate alla televisione. Si trattava piuttosto di un appassionante dibattito sulla libertà, l’anarchia e la solidarietà. E per sostenere le rispettive tesi si citavano uomini di stato che per noi, sino a poco prima, erano stati poco più che figurine sfocate, attaccate dentro a pallosi documentari del sabato mattina. Intorno alle tre di notte erano giunti gli amori. Storie struggenti di donne adorate e poi ripudiate. Uomini sedotti e poi abbandonati. Tutto di nascosto, senza che i genitori sapessero nulla. Matrimoni di convenienza, allucinanti segreti di famiglia che avrebbero fatto la fortuna di chissà quanti paparazzi, se solo i protagonisti fossero stati divi del cinema e non poveri cristi dalla vita disfatta.

Avevamo smesso di mangiare, io e Stefano. Semplicemente, ascoltavamo. A volte ci scappava giusto qualche domanda, che spesso non riceveva alcuna risposta, presi com’erano dalla foga nel raccontare. Eravamo dei naufraghi felici, che si facevano sbattere da quella mareggiata violenta di ricordi, rimpianti e rimorsi, stregati da vite passate, sogni infranti e speranze mal riposte. Alle prime due onde di quella tempesta perfetta se n’erano aggiunte presto ben altre. Voglio dire, i due vecchini si erano limitati a servire solo un gustoso antipasto ed alle loro voci si erano presto aggiunte quelle della variopinta clientela che affollava la stramba trattoria.

Ci arrivava gente a ogni ora, là dentro. La maggior parte si limitava a fare un cenno col capo per salutare. Con passo deciso gli avventori si avviavano verso la scaletta a chiocciola da dove, ore prima, era spuntato Garibaldi. Quando poi la ridiscendevano, erano come rigenerati. Tutti, salvo poche eccezioni, indugiavano davanti al bancone per lunghi istanti, alcuni dei quali duravano ore. Un ultimo bicchiere da sgolare, un ultimo dolce da gustare, un’ultima parola da mormorare. O, nel nostro caso, un ultimo ricordo da acchiappare.

Non so dirvi a che ora uscimmo da quel locale, ricordo solo che c’era una timida luce ad accarezzare il ponte della ferrovia. Le nostre bocche erano impastate, gli stomaci al tappeto come un pugile principiante dopo aver rimediato un bel gancio sinistro. Sul viso però, portavamo entrambi la stessa, identica certezza. Saremmo presto tornati.

· Martedì: tagliolini fatti in casa, se è stagione da mangiare col sugo di funghi

· Mercoledì: pizza, rigorosamente margherita (guai a chiedere qualsivoglia alternativa, “la pizza è una ed è margherita”)

· Giovedì: Pesce del giorno, che poi era sempre lo stesso, il branzino

· Venerdì: Pasta e fagioli (anche d’estate)

· Sabato: Stufato con patate (il pezzo forte, capace di regalarti visioni paradisiache ad ogni morso per poi farti piombare in incubi demoniaci durante la sua eterna digestione)

· Domenica: Frittelle con le acciughe, i novellini pensavano fosse un antipasto e invece ci tiravi avanti per tutta la sera, roba che alla fine non avevi posto nemmeno per un misero caffè

· Lunedì: sacro riposo

Con il passare dei mesi avevamo imparato le specialità della trattoria a memoria. E sebbene tutto fosse divino, più passava il tempo e più noi, da Mario, andavamo per qualcos’altro. Noi ci andavamo per conoscere la sua gente o, meglio, per vivere anche solo un pezzetto delle loro incredibili storie.

C’era un pilota di aerei, perfetta antitesi dei ragazzetti fighetti che smanettano sui tablet nei terminal di mezzo mondo. Si chiamava Ernesto e indossava sempre un lungo soprabito blu sgualcito dal tempo. Secondo chi lo conosceva bene, erano dieci anni che gliene mancava uno per andare in pensione. Avreste dovuto vederlo, bastava offrirgli un bicchiere di prosecco - e quando non lo faceva nessuno ci pensava la casa - e lui ricambiava con l’emozionante cronaca del suo primo atterraggio al JFK di New York, correva l’anno 1954. “E io da sopra vedevo i piroscafi, e pensavo: ma chi glielo farà mai fare a quei riccastri di spostare le palle a mollo dalla piscina dell’Andrea Doria per venire su questa trappola di latta?”

C’era la povera Jenny, una donna di settant’anni, salutava con un sorriso triste. Era rimasta vedova a cinquanta e negli ultimi venti non aveva mai smesso di cercare il marito nei ricordi che la tormentavano. Quando era il suo turno a raccontare, rimanevamo tutti commossi nel rivivere il suo matrimonio. Era stata una cerimonia d’altri tempi, oltre cinquecento invitati, loro che erano gente modesta avevano voluto, per una volta, fare le cose in grande. “Persino il ministro, quello importante, ci aveva mandato il telegramma” diceva con voce commossa.

Di tanto in tanto irrompevano portuali con la pancia gonfia di alcool. Si sedevano sempre in disparte, come a rimarcare la loro appartenenza a un mondo diverso. Ce n’era uno che conosceva per filo e per segno tutti i bordelli di Macao, città dove era sbarcato l’ultima volta nel 1962 “E, sapete, non ho mai più fatto l’amore come a quei tempi” – sospirava mentre guardava il fondo del bicchiere.

Sebbene fossimo ormai di casa, il nostro atteggiamento rimaneva immutato dalla prima sera. Mangiavamo, ascoltavamo e, tuttalpiù, chiedevamo. Estasiati da quelle esistenze così cariche di vita, lasciavamo che il nostro cuore si spalancasse. Con la mano sulla maniglia sudicia, uscivamo dall’osteria con l’unico pensiero a quando vi avremmo fatto ritorno.

Fu una sera, dopo che ci eravamo attardati ad ascoltare un ormeggiatore del porto, quando ormai ci stavamo lentamente trascinando verso l’auto, che la domanda più importante di tutte mi si era, finalmente, palesata.

“Stefano, ma chi cazzo è Mario?”

Ci avreste dovuto vedere, nei giorni a seguire. Eravamo come impazziti, ci avevamo pure scommesso dei soldi.

“Mi gioco tutto su Garibaldi, l’eroe dei due mondi!” diceva Stefano.

“E invece è l’altro, quello che parla meno, il leader silenzioso” contro ribattevo io.

Il gran giorno arrivò. Era un sabato sera, con il succulento stufato a fare da cornice al momento della verità.

Il problema era che non sapevamo come chiederlo. Sì, ormai eravamo clienti abituali, addirittura qualcuno ci indicava come “quelli del giro”, quasi fossimo parte di un esoterico cerchio magico. Eppure noi, in quel luogo, volevamo rimanere parte dell’arredamento, semplicemente desiderosi di succhiarne sino al midollo l’essenza. Finalmente vinto dalla curiosità, era stato Stefano a rompere gli indugi:

“Mi scusi” aveva detto rivolgendosi a Garibaldi con tono ossequioso “Ecco, noi volevamo solo chiederle una piccola cosa. Chi di voi due è Mario?”

Tutto in un’unica botta, senza respirare nel mezzo, come se fosse andato in apnea. Il gran passo era stato fatto. Ora non c’era altro che aspettare la risposta per decretare il vincitore. Avvinghiati su due scomodi sgabelli, pendevamo da quelle labbra screpolate. Dopo qualche istante due mani si erano appoggiate sulle nostre spalle:

“venite con me”.

Lo avevamo seguito e, per la prima volta, ci eravamo inerpicati anche noi su per quella scala, che mai avevamo avuto il coraggio di percorrere. Nessun mondo parallelo però. Non c’erano tracce di porte che conducessero ad altre dimensioni né, tantomeno, macchine del tempo funzionanti. Si trattava invece di una sala abbastanza ampia, con piccoli tavolini accompagnati da sedie di legno spartane. L’arredamento era essenziale, anche se non mancava di certo il gusto. Peccato che, ad occhio e croce, fosse quello di almeno un mezzo secolo fa.

Seduti, a mangiare con lentezza le prelibatezze della casa, stavano tutte quelle persone che avevano animato le nostre serate più belle con i loro ricordi di vita vissuta. Quasi nessuno parlava.

“Quando abbiamo aperto questo locale" – aveva iniziato a spiegare il vecchino barbuto, infrangendo un silenzio assordante - "volevamo che questa fosse la trattoria della gente. Proprio come quando sei a casa, seduto al tavolo della cucina con la tua bella famiglia a parlare di quello che hai fatto nella giornata trascorsa. E, soprattutto, di quello che farai il giorno che viene. Volevamo che questo posto fosse una culla di progetti da partorire, sogni da inseguire.”

“Sapete, erano anni diversi, c’era il boom industriale, tutti stavano bene o perlomeno fingevano ancora meglio.”

“E ci siete riusciti?” Aveva chiesto Stefano, sedotto da quelle parole.

“Direi di sì, almeno all’inizio. Qui dentro la gente è cresciuta, cambiata. A volte si è disperata, altre ha gioito, di sicuro ha vissuto.”

Il vecchio continuava a guardare in avanti, verso un tavolino vuoto in un angolo.

“Mario sono loro” aveva aggiunto una voce da dietro, che avevamo presto riconosciuto essere quella del suo socio. Con il mento appoggiato alla ringhiera della scala, era spuntato dal nulla ed ora anche lui guardava nello stesso punto dell’altro, con occhi vagamente lucidi. “Avevamo pensato di chiamarlo con il nome più comune, quello delle persone normali, il nome che trovi nei problemi di matematica. Volevamo che qualunque cristiano, qualunque Mario là fuori che stesse provando a combinare qualcosa di buono nella vita si sentisse a suo agio, almeno qui dentro.”

“Mario era chi aveva una vita da vivere, e ora è divenuto chi la vita l’ha vissuta, tra gioie e dolori. Ha i suoi rimpianti, certo, avrebbe voluto che alcune cose andassero in un modo diverso e che altre proprio non succedessero. Però Mario ha comunque continuato a camminare, anche quando gli altri si fermavano per poi non riprendersi più. Mario oggi è chi è quasi arrivato alla fine e, per questo motivo, sente il bisogno impellente di ricordare, di rievocare. Per non dimenticare, per rimanere aggrappato ancora un pochino alla vita. Per fare in modo che gli altri, un giorno, possano fare lo stesso.”

Senza aggiungere altro, i due si erano congedati ed erano tornati al piano di sotto. Io e Stefano no, eravamo rimasti ancora qualche minuto sui gradini delle scale. Poi avevamo pagato, salutato ed eravamo usciti, senza nemmeno gustare il favoloso stufato di Mario.

Fu l’ultima volta che andammo da Mario. Sono passati almeno dieci anni da quella serata.

Stefano ha coronato il sogno più bello e, come un muratore che si costruisce la propria casa, ha saputo crearsi una splendida famiglia. E’ il papà di due belle bambine, le sue due principesse come le chiama lui. Giulia e Irene lo fanno dannare, viziate come sono, eppure basta incrociarlo la domenica mattina, quando le porta a giocare ai giardini, per capire che è l’uomo più contento del mondo. Qualche tempo fa, insieme a sua moglie, ha sistemato una cascina in campagna e questo fine settimana, finalmente, andrò a trovarlo. Voglio parlargli del mio prossimo libro, una storia che parla di passato, presente e futuro. Perché sì, io continuo a raccontare storie, o perlomeno ci provo.

Martedì scorso, quasi per caso, mi sono ritrovato in quella piazzetta. Ho pensato di tirare dritto, ma poi non ce l’ho fatta. Davanti alla ferrovia, sulla sinistra, l’insegna con la scritta rossa non c’è più. Mario ha chiuso da tempo. Al suo posto, però, c’è un locale dove comunque si continua a mangiare. Buon segno, mi son detto. Il locale si chiama “L’antico Trofiaio” e a gestirlo ci sono due ragazzi giovani e pieni di vita, in due avranno meno anni di me. Uno, più taciturno, lavora dietro al bancone ed è pronto a servirti le trofie con qualsiasi condimento immaginabile, persino la nutella. L’altro sta tutto il giorno ad impastare e basta guardarlo negli occhi per capire che ha una gran voglia di parlare.

Hanno risposto al mio esitante buongiorno con cortesia e gentilezza. Mi hanno servito una generosa porzione di trofie al pesto. Soddisfatto del pranzo, li ho ringraziati e mi sono complimentato per l’attività, augurandogli ogni bene per il futuro. Poi mi sono diretto verso la moderna porta scorrevole che, obbediente, si è prontamente spalancata. Ero ormai uscito, quando, con la coda dell’occhio, ho visto una foto ingiallita, appesa proprio sopra l’ingresso. Entrando non la si nota, messa com’è sopra la porta. Si vede che è stata scattata in altri tempi, ha tutti i bordi ingialliti. Lo si capisce dai volti immortalati, severi nelle loro pose quasi teatrali. Ritrae una squadra di calcio. Sulle maglie di flanella dei giocatori, eleganti nel loro collo a V, campeggia, al centro, una scritta in corsivo cucita a mano “Trattoria da Mario”.

“Pazzesco vero? Per inventarti una trovata del genere così tanti anni fa, devi proprio essere stato un genio!” Mi ha detto il ragazzo più loquace dei due. “L’abbiamo trovata quando abbiamo rilevato il locale, è stata l’unica cosa che abbiamo lasciato così com’era”.

Io, ho pensato, non l’avevo mai notata.

Allora ho riguardato la fotografia con maggiore attenzione e mi sono concentrato sui volti dei giocatori, pronti a scendere su quel campo polveroso per l’ennesima battaglia. Ce ne sono due, sulla sinistra, che sono diversi degli altri. Uno ha un capello nero e arricciato, come usava a quei tempi. Porta una collanina d’oro intorno al collo. Alla sua destra, inginocchiato, c’è un suo compagno dalla fronte lunga e spaziosa. Gli occhi sono un po’ in ombra, offuscati da polvere e tempo, ma sarei pronto a giurare che sono vispi, attenti e turchini. C’è qualcosa che li rende diversi. Sarà come sono seduti, sarà il portamento fiero e orgoglioso. O forse è il modo di guardare. Hanno lo sguardo proteso, oltre l’obiettivo, che fissa un punto lontano. Non credo abbiano idea di dove sia la loro destinazione, non sanno nemmeno come arrivarci. Perderanno la strada, la ritroveranno e poi cambieranno pure percorso. In fondo, a loro, non importa.


A loro quello che importa è mettersi in marcia e partire. Sono pronto a scommettere che, giunti alla fine del loro vagare, non staranno nemmeno a chiedersi se la meta finalmente raggiunta è quella intravista all’inizio.

Si abbracceranno soddisfatti, felici di aver intrapreso un bel viaggio.


Di quelli da raccontare, quelli da ricordare.

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