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Yo perdono, pero nunca olvido


“Sicuramente questa sarà l’ultima opportunità in cui posso rivolgermi a voi.”

Prima di continuare, mi immagino Allende fare una pausa, come per deglutire e trovare la forza per proseguire il discorso. Magari un bicchiere d’acqua potrebbe aiutarlo, ma a fianco a lui c’è solo un fucile e un elmetto. La frase successiva è quindi pronunciata con la gola asciutta, senza saliva.

“La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Magallanes.”


Il Palacio de la Moneda è un edificio tozzo, di bassa fattura, decisamente non bello. Ma non mi aspettavo certo il Partenone. Ai tempi dell’Università un professore ci diceva che, oltre a studiare le forme di governo, bisognerebbe analizzare le strutture degli edifici dove si esercita il potere. Pensate al grande emiciclo di Montecitorio, in cui a dominare è una luce soffusa, obliqua: sembra avere una vocazione naturale per i bisbigli, gli accordi sottobanco.

Westminster, in Inghilterra, ha invece il rigore e la chiarezza di stampo british, con leader del governo e opposizione a fronteggiarsi l’uno dinanzi all’altro. Il posto a capotavola spetta allo speaker, a rimarcare la centralità assoluta del parlamento rispetto all’esecutivo. In molti paesi del Latinoamerica i parlamenti hanno invece le sembianze di un teatro. I deputati sono la platea, mentre l’esecutivo sta in fondo all’aula, su un podio spesso sopraelevato e che per questo ricorda un palco.

Alla gente piace l’idea dell’uomo al comando, mi è stato detto in queste settimane. Forse bisognerebbe interrogarsi su chi siano queste persone, uomini e donne ormai di vaghissima discendenza dalle popolazioni originarie. Gente a cui hanno insegnato l’obbedienza, ancora prima che la coscienza.

In Cile costa tutto carissimo. E, davanti a un salario minimo inferiore ai 400 euro al mese, mi chiedo come facciano le persone a vivere. Sì, forse riescono a malapena a tirare avanti, a sostenere le spese quotidiane. Ma se uno vuole prendere un pullman, magari per andare al mare? Se uno vuole, com’è giusto che sia, godersi un pochino la vita tra i tanti affanni, come fa?

Non lo fa, mi è stato risposto.

In Cile c’è poi l’ossessione per avere tutto sotto controllo. Così mi dicono Mauro e Daniele, due astrofisici italiani che hanno trascorso parecchi anni da queste parti. Ci sono venuti per ammirare e studiare il cielo più terso del mondo e poi, inevitabilmente, si sono messi a osservare, e pure a cercare di capire un po’ il paese che li ha ospitati. “Pinochet fu il risultato di un’ideologia già largamente diffusa e condivisa nel paese”, mi dice Mauro. Non stento a credergli. Più di un autista del bus mi ha confessato di avere nostaglia per quei tempi, specie per gli ultimi anni della dittatura. Quando “la gente portava più rispetto e non c’erano i disordini di oggi”.

Le sommosse del 2019 sono una ferita ancora viva e, secondo molti, pronta a risanguinare da un momento all’altro. “Vuoi protestare? Va bene! Però mi devi spiegare perché devi distruggere metropolitane, fermate del bus e negozi della gente. Che colpa ne hanno loro?” Javier, 45 anni, si infervora mentre esprime il suo punto di vista. Questo accendersi repentinamente, specie quando si parla di politica e problemi sociali, è qualcosa che mi attira e per cui provo rispetto.

A Valparaiso conosco Luis. Fin da subito si dichiara di sinistra e, nonostante tutto, ancora fiero di esserlo. Per Luis (e non è il solo) il problema principale sono state le privatizzazioni, di cui gli effetti sono ancora davanti agli occhi di tutti. In Cile, se vuoi accedere a qualunque servizio, devi pagare. L’acqua, l’energia elettrica, persino l’accesso al mare sono appannaggio di poche e ricchissime famiglie. Per non parlare delle miniere, la maggior parte in mano alle solite multinazionali stranieri.


Dei cileni mi colpisce questa ostinata rassegnazione. Ti dicono che non è più possibile fare niente ma intanto si arrabbiano, argomentano le loro posizioni con meticolosità. Non mostrano il minimo segno di apatia per il contesto, anzi. D’altronde, mi sono bastate poche settimane in questo paese per apprezzarne le sue ricchezze. E non parlo certo di quelle del sottosuolo. Mi riferisco ai tramonti, lunghi e intensi, proprio come questo paese. Penso al lago Chungarà, considerato il più in alto al mondo (non navigabile) e dove si respira a fatica, ma in maniera grata e consapevole.


Il Cile è completamente diverso dagli altri paesi visti fino ad ora. Pure loro con certe peculiarità distinte, ma come legati da un invisibile tratto latinoamericano. Forse la chiave di questa unicità risiede nello sradicamento della cultura indigena, qui attuato in maniera sistematica e pressoché irreversibile. Per accorgersene, basta guardare i volti delle persone. Solo al nord alcuni hanno ancora la pelle rossiccia, il naso e la bocca più schiacchiati. Ma la stragrande maggioranza delle persone potrebbero essere a tutti gli effetti italiani, o tedeschi, o spagnoli. É per questo motivo che mi sono trovato così bene in città come Valparaiso. Perché assomigliano in tutto e per tutto al nostro mondo. Con quel tocco di luce e colore che, grazie a Dio, resiste come unico tangibile segno della terra ancestrale.


Ma il Cile sarebbe potuto essere molto altro. Negli anni Settanta, per le generazioni precedenti alla mia, questo paese fu teatro di un breve ma coraggiosissimo tentativo. Creare uno stato più equo, senza mettere in discussioni i principi della democrazia. Anzi, basandosi proprio su di questi. L’11 settembre 1973 l’aviazione cilena, oltre al Palacio della Moneda, bombardò qualsiasi speranza.

Al museo della Memoria di Santiago si ripercorrono gli istanti più drammatici della giornata. Intorno allo schermo ci saranno una trentina di persone, la maggior parte sui venti, venticinque anni. Hanno tutti un’espressione allibita, quasi incredula. Poco lontano, su dei grossi pannelli esplicativi, si ripercorre la feroce e istantanea repressione perpetrata dai militari subito dopo aver preso il potere. Il grosso della carneficina venne attuato negli anni immediatamente successivi al golpe. Roba di quasi cinquant’anni fa. Sarà per questo motivo che le persone con cui ho parlato si sono dichiarati nostalgici di Pinochet. Hanno poco più di quarrant’anni. Uomini e donne che se lo ricordano come un innocuo vecchiento, pure elegante nella sua impeccabile divisa da generale. Ma chi ha visto il prima, uomini come Luis, che un giorno è stato arrestato e poi malmenato, la pensano diversamente.


E poi ci sono i giovani. Chi, prima di prendere una posizione, ha il sacrosanto diritto-dovere di documentarsi. Davanti al pannello che ripercorre la storia di Josè (nome di fantasia), tredicenne sequestrato e poi fatto scomparire dal regime, sono in molti a fermarsi. Una ragazza dai capelli neri e gli occhi chiari si mette a piangere. Le lacrime colano giù dal viso, e lei non fa niente per fermarle, nonostante il trucco sbavato. Senza volerlo, la seguo con lo sguardo per alcuni istanti. Cerco, nella mia tasca, un fazzoletto da porgerle. Poi cambio idea.

In quelle lacrime, che poi si sciolgono in un sorriso quando viene raggiunta dal ragazzo, c’è tanto dei sentimenti incrociati lungo questo paese. Stupore, rabbia, dolore e, alla fine, determinazione.

Come a dire: Yo perdono, pero nunca olvido.


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