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  • Immagine del redattoreAlitaki

Vidi brillare due occhi

Aggiornamento: 2 mar 2018


Edoardo amava viaggiare in treno.

Adorava gli scompartimenti vecchia maniera, quelli dove sei passeggeri erano costretti a condividere uno spazio stretto ed angusto. Tre da una parte e tre dall’altra, protagonisti loro malgrado d’improvvisati vis à vis dalle combinazioni imprevedibili.

Ad Edoardo piaceva spiarne i volti, analizzarne i comportamenti, guardarne i vestiti. Convinto che chiunque avesse una storia interessante, non voleva che fosse qualcun altro a raccontargliela e per questo si perdeva in congetture fantasiose costruendo vite, morte e miracoli di perfetti sconosciuti.

In quel pomeriggio uggioso di fine ottobre si era ritrovato davanti ad un insolito vecchino. Indossava una giacca di flanella a quadri e aveva una faccia severa e spigolosa, dalla quale spuntavano due piccoli occhi neri che guardavano fissi oltre il finestrino. Edoardo lo immaginava indaffarato nel gestire la sua attività di commerciante, una drogheria aperta subito dopo la guerra e che aveva dato da mangiare a lui e alla sua famiglia per decenni. Divenuto vecchio e solo, colto da acciacchi di ogni tipo, aveva dovuto cedere l’attività, ritrovandosi con una vita da pensionato che non voleva vivere.

«Hai firmato il biglietto?»

La domanda di Francesca fece sobbalzare Edoardo.

Francesca era la sua bella fidanzata. Si erano conosciuti al terzo anno di università, durante un seminario dai contenuti soporiferi, necessario per guadagnarsi gli ultimi crediti verso la tanta agognata laurea. Era bastata una battuta di lui, detta a mezza voce, perché la ragazza si accorgesse del suo affascinante compagno di corso. Alla fine della lezione lei gli chiese se potesse passarle gli appunti della lezione precedente. Edoardo non ci mise molto a capire che dietro quel sorriso ci fosse qualcosa di più che una semplice richiesta d’aiuto. Si erano piaciuti sin da subito, dal loro primo appuntamento, avvenuto una settimana dopo in un ristorante del centro città e dove scoprirono di avere alcune passioni in comune.

«Hai presente i film in bianco e nero, quelli che guarda giusto mia nonna il sabato mattina? Io li adoro» Aveva detto Francesca.

«Ah vabbè se stiamo parlando di tutto il neorealismo italiano, io ne sono un cultore!» Aveva risposto d’impeto Edoardo, sorpreso quanto lei.

Lui poi le aveva esposto la sua personale teoria secondo la quale il letto non andasse mai fatto la mattina. «Tanto lo ridisfi la sera» aveva spiegato con quella naturalezza di cui Francesca finì ben presto per innamorarsi.

Erano passati quattro anni e tutto scorreva secondo i piani, i due condividevano un piccolo appartamento all’ultimo piano di un palazzo d’epoca, non si separavano mai e gli amici erano soliti definirli la coppia più bella del mondo.

«Certo amore, ci ho pure fatto una dedica personale per quella figona di tua zia» rispose Edoardo.

La ragazza gli fece una carezza leggera dietro l’orecchio e poi lo strinse a sé dandogli un bacio, come a ringraziarlo per averla accompagnata alla festa di compleanno di quella sua zia stravagante, a cui era molto legata. Si trattava in effetti di una signora dal fascino raro, ormai sulla quarantina abbondante e che aveva recentemente portato scompiglio in famiglia trasferendosi a Verona, cedendo alle suppliche di un ricco agente immobiliare, lo stesso che pochi anni prima aveva causato il naufragio del suo precedente matrimonio.

Mancava più di un’ora al loro arrivo e gli altri quattro passeggeri dello scompartimento si erano tutti assopiti o erano in procinto di farlo, persino il vecchietto di fronte ad Edoardo mostrava vistosi segni di cedimento. Francesca gli appoggiò la testa sulla spalla e chiuse gli occhi, ritrovandosi ben presto cullata dalla penombra, complice la luce interna guasta. Rinunciando a proseguire la sua indagine, Edoardo si stava accingendo a fare altrettanto, quando una mano minuta si appoggiò sulla maniglia, facendo scivolare rumorosamente la porta e irrompendo nella quiete sonnacchiosa del gruppo. Inizialmente sentì un profumo di lavanda, che gli ricordava il bagno schiuma quando andava in piscina il sabato mattina. Poi la sconosciuta si voltò ed Edoardo la vide in viso. A prima vista sembrava una ragazza come tante, della stessa età di Francesca, i capelli neri e sottili, con la pelle di un bianco candido, le labbra appena abbozzate e un nasino grazioso.

Gli occhi, invece, erano di un altro mondo.

Tondi, chiari e buoni, brillavano. Pareva che una lacrima di gioia vi fosse rimasta incastrata lì dentro, da quanto luccicavano.

Fu come un lampo nel buio, un bagliore accecante durato un istante ed Edoardo si ritrovò catapultato in un altro tempo della sua vita.

Era dentro un’automobile, faceva freddo e fuori era buio. Sua mamma stava canticchiando una canzone mentre finiva di parcheggiare. Con la sua manina da bimbo apriva la portiera, dicendole che sarebbe tornato subito. Non ricordava dove stesse andando, non importava. Al suo ritorno, vedendolo avvicinarsi, la madre accendeva il motore. I fari dell’auto fendevano l’oscurità con due potenti fasci di luce che, inaspettatamente, svelavano candidi fiocchi di neve scendere silenziosi. Edoardo rimaneva qualche minuto lì fuori, incantato dallo splendore di cui era circondato. Una volta rientrato nell’auto, si rivolgeva a sua mamma con tono incredulo, quasi gridando: «hai visto, hai visto la neve mamma? Brilla!». Di primo acchito la donna non diceva niente, si limitava a guardarlo commossa. Infine con voce dolce, sussurrava: «E non hai visto i tuoi occhi».

Quando Edoardo tornò su quel treno era terreo in volto e avvertiva un forte senso di nausea. Mosso da un impulso quasi meccanico, si alzò in piedi. Senza dire una parola camminò veloce lungo il corridoio, quasi correndo, in preda ad una forte emicrania. Ripensava a quegli occhi, simbolo puro di felicità assoluta, la stessa che doveva aver visto sua madre tanti anni prima. Ripensava a quegli occhi e si sentiva tremendamente a disagio, ben sapendo che lui mai sarebbe stato in grado, ora, di indossare un simile sguardo.

Francesca lo trovò dopo più di mezz’ora. Con le mani sulle tempie e le gambe incrociate, era accovacciato per terra, nel punto del treno dove i due vagoni si congiungono. Sperava che il rumore tambureggiante delle rotaie lo aiutasse a smettere di pensare. Il braccio della ragazza lo avvolse intorno al collo.

«Amore mi hai fatto preoccupare, stai male?»

«No, non è niente, solo un po’ di nausea. Ora mi passa» Disse lui cercando di tranquillizzarla, con un sorriso tuttavia poco convincente.

Persuaso dalla fidanzata, tornarono ai loro posti, dove notò con sollievo che non vi erano più occhi brillanti ad attenderlo. Si sentì immediatamente meglio, come al risveglio da un brutto incubo. Ripensando all’accaduto ora ci rideva sopra. Vidi due occhi brillare. Non male come titolo per un racconto. Decisamente più rilassato, si stava accingendo a scambiare qualche coccola con Francesca quando il gracchiare metallico dell’altoparlante li richiamò all’ordine: erano arrivati.

La zia aveva fatto le cose in grande e la festa fu di proporzioni memorabili. Nel salone sconfinato della villa risuonavano note allegre di canzoni di altri tempi, che aiutavano non poco gli invitati a sentirsi più giovani di quanto in realtà non lo fossero. Francesca e Edoardo si erano ritrovati nel mezzo di un gruppo variegato composto da almeno trenta persone. Uomini e donne di mezza età, incapaci di arrendersi al normale decorso della serata e, forse, della vita. Mezzanotte, l’una, le due, a loro non importava. Continuavano a ballare, cantare, danzare. Sempre più sguaiati nei modi e ridicoli nelle movenze, non volevano affatto levarsi di dosso quelle maschere, che pure qualcuno portava effettivamente sul viso.

Congedati finalmente gli ultimi invitati, la coppia si ritirò nella camera che la zia aveva loro preparato. Edoardo aveva bevuto un po’ troppo e non vedeva l’ora di sdraiarsi su quel soffice materasso per abbandonarsi ad un sonno profondo. Dopo una doccia veloce indossò la prima maglietta che trovò nella valigia e disfò il letto dalla sua parte per infilarcisi. Francesca, anche lei esausta, stava posando sul comodino la sua collana con un ciondolo a forma di quadrifoglio, regalo da parte di Edoardo per il loro recente anniversario. Spense la luce, giunse il silenzio.

Tic.

Un breve, leggero ticchettio. Poi ne vennero di altri, più frequenti e intensi. Era solo il preludio ad un violento acquazzone, che ben presto si abbatté con tutta la sua forza, sferzando di pioggia e vento la finestra posta dietro le loro teste. Francesca si avvinghiò stretta al corpo del fidanzato, desiderosa di addormentarsi dentro un suo abbraccio.

Il contatto con il corpo di fece destare Edoardo. Ora non avvertiva più la benché minima traccia di sonno e si sentiva decisamente sobrio. Troppo. Attese qualche istante, poi sporse la mano verso l’interruttore dell’abat-jour. Si ritrovarono in una stanza illuminata da una luce fioca, Francesca era osservata da uno sguardo che mai aveva visto prima. Così appoggiato su un gomito, Edoardo le sembrava uno sconosciuto.

«Scusami, ma io non so se ti amo.»

Disse lui con voce ferma e bassa, senza abbassare gli occhi.

Nella stanza piombò un silenzio irreale, non si sentiva più nemmeno il temporale, che pure continuava a sbraitare furioso.

«Mi sento oppresso da questa vita, non sto bene». Edoardo fece una leggera pausa e poi aggiunse, più piano:

«Voglio stare da solo.»

Francesca, attonita, iniziò a piangere in silenzio, le mancava il respiro. Avrebbe eccome voluto parlare, dire tante cose, ma quando provava a muovere la bocca avvertiva un bruciore devastante alla gola.

Passarono lenti alcuni minuti. Poi, infine, ci riuscì.

«Sai, ti ho visto, oggi. Ho visto la ragazza e ho visto come la guardavi. Ho fatto finta di niente ma ho capito che ti era successo qualcosa.»

Quindi scoppiò in un pianto disperato, pieno di singhiozzi e di urla penose.

«Perché? Perché non vado bene?»

«Perché mi fai questo?»

Edoardo non rispondeva, limitandosi a guardarla in silenzio. Affranto dal dolore provocato, iniziò anche a lui a piangere. Dopo ore di strazio arrivò la mattina, con una pallida alba a sostituire il temporale della notte. Seppur devastata da quelle terribili ore appena trascorse, Francesca trovò la forza per fare l’ultima domanda:

«Edo, sei sicuro?»

«Si» rispose lui immediatamente.

Non fornirono alcuna spiegazione alla zia, che pure nella notte aveva sentito i singhiozzi della nipote ed era stata sul punto di irrompere nella loro stanza. Si congedarono frettolosamente, Edoardo trovò una scusa qualunque per giustificare il loro rientro anticipato. Una volta saliti sul treno Francesca si mise con la testa appoggiata di sbieco sul sedile, a fissare impietrita lo schermo spento del cellulare. Rimase così per tutto il tempo. Edoardo le era seduto vicino, proprio come durante il viaggio di andata. Questa volta però non aveva alcuna voglia di osservare gli altri passeggeri. Continuava ad alzare e abbassare il coperchio del posacenere e, intanto, pensava.

Fino al giorno prima la sua vita era stata come una linea retta: un’infanzia felice, cresciuto tra gli affetti di una famiglia che non gli aveva fatto mancare niente. Terminato il liceo con pieno profitto, si era iscritto all’università, più per convenzione che per scelta. Laureatosi con il minimo sforzo, aveva immediatamente iniziato a lavorare col padre, che gestiva una piccola azienda di spedizioni marittime. Durante quegli anni dal sapore insipido aveva continuato a frequentare gli stessi amici di sempre, addirittura con certi si conoscevano dai tempi dell’asilo. Ragazzi con la testa sulla spalla, alcuni figli di rinomati dottori o avvocati, che presto avrebbero preso il testimone dai genitori, come del resto avrebbe fatto anche Edoardo. Ragazzi ormai divenuti uomini, pronti ad assumersi le loro responsabilità, sempre con un bel sorriso rassicurante sul volto. Tutti molto simili, nessuno che spiccasse sugli altri. “La forza è nel gruppo”, erano soliti ripetersi nello spogliatoio prima delle partitelle di calcio. La questione, rifletteva Edoardo mentre il treno sfrecciava per buie gallerie, era proprio quella.

Drogato da un ambiente accomodante, incapace di vedere valide alternative, era finito per diventare uno di loro. Senza la benché minima ambizione ma, al compenso, dotato di uno spropositato realismo. Senza occhi che brillano ovviamente, ma piuttosto che assistono distratti al normale scorrere degli eventi. Persino Francesca - pensò - lo amava non tanto perché in possesso di chissà quali qualità ma piuttosto per non avere quei difetti così comuni in altre persone. “Suo figlio non crea mai problemi, ce ne fossero” Dicevano i professori del liceo a sua madre.

Eppure non era sempre andata così. Ad Edoardo gli occhi sapevano brillare, e non solo durante quell’improvvisata bufera di neve di tanti anni prima. Vi era stato un tempo, poco prima della sua adolescenza, in cui trascorreva le estati al mare, nella casa in riviera dei nonni. Si ricordava di memorabili serate passate in spiaggia, in cui bastava che tirasse fuori la chitarra per essere l’idolo assoluto degli amici. Era stato il padre a fargli quel regalo, con l’intesa che avrebbe preso lezioni da quel vicino di casa noioso, almeno si sarebbe trovato un senso a quel suo ennesimo capriccio. Sebbene non dotato di particolare talento, Edoardo riuscì ad apprendere gli accordi più semplici, imparando a suonare le canzonette in voga del tempo. Ce n’erano eccome di occhi che brillavano quando, con gli amici intorno ad un falò, iniziava a solleticare le corde dello strumento, strimpellando i successi dell’estate. Tutti ad andargli dietro, pazzi di quel ragazzino che non era certo un fenomeno ma che, a guardarlo negli occhi, sembrava avere il mondo in pugno.

E se a quattordici anni era bastata una chitarra, chi aveva detto che ora non avrebbe potuto fare altrettanto? Avrebbe usato uno strumento che era sicuro saper suonare con una certa maestria: sé stesso. Era pieno di doti che altri non avevano, su questo non aveva dubbi. Si trattava solo di tornare ad esserne pienamente consapevole, uscendo dal guscio in cui era rimasto intrappolato negli ultimi anni. Poi, sarebbe tornato ad essere apprezzato come su quella spiaggia, incantando chiunque e suonando le note di una vita piena di successi.

Edoardo scese da quel treno deciso più che mai a cambiare tutto quanto.


Erano passati cinque anni da quel viaggio in treno a Verona. Ora Edoardo lavorava per una prestigiosa multinazionale, in cui era a capo dell’ufficio commerciale italiano. I colleghi lo chiamavano il “primo del settimo”, poiché lavorava al settimo piano dell’edificio e nel suo ruolo non era secondo a nessuno. Viveva in una città lontana da quella dove era nato e aveva convissuto con Francesca, di cui aveva perso le tracce. Tornava comunque spesso a casa per ritrovarsi con i genitori, a cui continuava a volere bene. Mamma e papà erano rimasti inizialmente molto scettici dalla sua scelta di abbandonare il posto nell’azienda di famiglia, ma si erano poi dovuti ricredere davanti alla sfavillante carriera del figlio, di cui erano profondamente orgogliosi.

Per gli amici storici era divenuto una sorta di divinità, loro che erano rimasti intrappolati in delle vite preconfezionate e di cui iniziavano già ad avvertire una prima, forte crisi di rigetto.

Conduceva una vita spensierata, scandita da eventi mondani di ogni tipo. Lui che era stato timido e riservato si era riscoperto loquace, spigliato e con le doti del grande affabulatore. Tutti a voler conoscere quel giovane dalla faccia intrigante e gentile nei modi, per rimanere poi incantati ad ascoltare le storie dei suoi viaggi. Sia per lavoro che per diletto aveva infatti girato il mondo intero, non vi era luogo sul quale non avesse un aneddoto da raccontare.

Single incallito, riusciva a conquistare un numero incredibile di donne con quel suo sguardo profondo. Spesso, dopo aver finito di farci l’amore, spariva per alcuni minuti e poi tornava, completamente nudo, con la chitarra sotto braccio, intonando qualche canzone struggente.

Una sera di settembre rientrava da una cena aziendale in cui, manco a dirlo, era stato il mattatore della serata. Oltre ad aver saputo intrattenere l’intero tavolo, era quasi certo di essere anche riuscito ad entrare nelle grazie di una sua collega greca. Una donna sui trentacinque anni niente male, dalle forme sinuose e con un viso delicato. Secondo le indiscrezioni sarebbe stata proprio lei il nuovo responsabile dell’intera sede italiana della sua azienda, e quindi capo diretto di Edoardo. A bordo della sua BMW l’uomo sorrideva malizioso, pensando ad un’ulteriore, piacevole ascesa in una carriera di per sé già fenomenale. Si fermò davanti ad un semaforo rosso. La radio passava il tormentone dell’estate ormai al termine e la memoria veloce ad una vacanza di qualche settimana prima, trascorsa nelle acque blu della Costa Smeralda, a bordo di un catamarano di un amico. Il semaforo segnò verde, e proprio mentre stava per pigiare il pedale dell’acceleratore, la sua auto fu tamponata da una vettura incolonnata dietro alla sua. Da una piccola utilitaria uscì un uomo sovrappeso, che gli corse incontro con fare concitato.

«Mi scusi, mi scusi davvero, è solo colpa mia, abbia pazienza, sto accompagnando mia moglie» Disse l’uomo per giustificarsi. Poi fece una breve pausa, si avvicinò ulteriormente ad Edoardo e aggiunse, emozionato:

«Sa, sto andando all’ospedale. Sto per diventare papà.»

Gli occhi, di nuovo quegli occhi.

Brillavano così tanto che Edoardo non riuscì più a parlare. Il cellulare che aveva preso per fotografare i danni gli cadde di mano. E mentre quell’altro continuava, affannato, a chiedergli scusa, a dirgli che si sarebbero sentiti con calma e che avrebbe pagato tutto, che era tutta colpa sua ma che ora doveva scappare… Edoardo era sospeso nel vuoto, immerso in pensieri che credeva sepolti per sempre. Si limitò a fare un gesto stanco con la mano, come dire che andava bene, non c’era problema, si trattava di un danno da poco.

«Auguri alla signora» disse poi, stringendo forte la mano all’uomo. Questo, stupito, rimase qualche secondo immobile. Gli sorrise forte, scrisse il suo numero di telefono su un pezzo di carta dicendogli di chiamarlo nei giorni a venire, che almeno gli avrebbe offerto un caffè o qualcosa del genere. Infine si precipitò nell’auto e si allontanò veloce nella notte.

Quando Edoardo aprì la porta di casa ad accoglierlo vi era il consueto silenzio. Nella sua testa però vi era un rumore assordante, lo stesso di un treno cinque anni prima. Andò in bagno per sciacquarsi la faccia. Mentre si asciugava il viso vide i suoi occhi allo specchio. Erano stanchi, aridi e spenti. Iniziò a pensare a quegli ultimi, frenetici anni e a chiunque avesse incrociato il suo sguardo. I colleghi a lavoro lo guardavano con stima, anche se sapeva che questa celava spesso una profonda invidia per quello sbarbatello che in poco tempo aveva sovvertito gerarchie consolidate. I genitori, loro no, nessuna invidia. Erano indubbiamente fieri di quel figlio straordinario. Eppure, a pensarci bene, vi erano dei momenti in cui notava in sua madre una certa, impalpabile tristezza. Succedeva quando, tutto concitato, Edoardo spiegava al padre le complesse operazioni commerciali che gestiva a lavoro. Sua madre, seduta al solito posto, lo guardava e non parlava.

Gli amici certo, gli volevano un gran bene. Ricordando però quelle mille serate di bevute e risate non riusciva, nel rievocare i momenti più belli, a rammentarsi delle loro espressioni, dei loro gesti, troppo assorto com’era dal fare una battuta o provarci con la più bella del locale. Sì perché di donne ne aveva davvero conosciute molte e frequentate altrettante. Ad alcune aveva iniziato pure a volerle bene, ma bastava poi un semplice sguardo più dolce del consentito perché lui, impaurito, scappasse. Allora tornava alla caccia più bramosa di prima, sempre puntando al meglio, o almeno a colei che riteneva essere tale, rimanendone poi profondamente deluso.

Edoardo, togliendosi i vestiti di dosso, si chiese se fosse stato davvero lui ad avere scelto quella vita o, piuttosto, si fosse fatto scegliere.

Bevve tanto e male quella notte. Da solo, al buio, nudo e in silenzio. La mattina successiva si svegliò con un forte mal di testa ma con meno pensieri. Vestito di tutto punto e annodato nella sua elegante cravatta Oxford, si risentì pienamente padrone di sé stesso. D’altronde, rifletteva mentre si dava l’ultima sistemata ai capelli, la vita è un palcoscenico e ognuno vi deve recitare la propria parte. A lui spettava quella del vincente.

Arrivò il giorno del suo compleanno, Edoardo organizzò una festa immensa a cui parteciparono almeno un centinaio di persone. Uno dei suoi amici più cari, Roberto, gli fece un regalo del tutto inaspettato. L’uomo viveva da tempo a Roma, dove aveva coronato il suo sogno, gestendo uno studio di registrazioni discografiche.

«Ti faccio incidere un disco Edo. E’ giunto il momento che tu senta quanto sei stonato!»

Si trattava in realtà di un suo vecchio desiderio, confidato all’amico tempo prima. Avrebbe davvero voluto incidere un disco, giusto per tenere la prima e unica copia a casa, magari facendolo ascoltare a qualche ragazza per impressionarla.

Decise di partire per Roma un giovedì pomeriggio di febbraio. Aveva appuntamento con Roberto in stazione, avrebbero fatto il viaggio insieme. Fuori faceva freddo e un leggero nevischio cadeva dal cielo. Edoardo non se ne accorse nemmeno quando scese dal taxi, preoccupato com’era da una mail di lavoro a cui doveva rispondere il prima possibile. Forse non avrebbe nemmeno dovuto prendersi un giorno di ferie, rimandando il viaggio ad un periodo più tranquillo. Poi pensò che era impossibile, anzi, con il passare del tempo sarebbe stato sempre peggio.

Pagato il conducente si guardò intorno e, dopo una veloce occhiata nell’atrio, capì che l’amico non era ancora arrivato. Si sedette e iniziò a rileggere la mail, sottolineando nella mente i punti più importanti e iniziando ad impostare il contrattacco, così come gli avevano insegnato in un corso di problem solving qualche mese prima. Mentre analizzava complicate analisi economiche, una musica conosciuta lo distolse dai suoi ragionamenti.

Poco lontano, appoggiato sulla colonna, un uomo con un flauto tra le labbra cercava di racimolare due spiccioli in cambio di qualche nota. Aveva una barba lunga e ispida, che s’interrompeva poco al di sotto degli zigomi per lasciare spazio a una testa completamente calva. Vestito di abiti consunti e poco adatti al freddo pungente, dimostrava sessant’anni ma non doveva averne più di quaranta. Gli occhi erano socchiusi e dalle due minuscole fessure s’intravedeva appena un’iride blu come il mare. Edoardo riconobbe la canzone e, d’istinto, iniziò a canticchiarne i primi versi.

In un vortice di polvere

Gli altri vedevan siccità

A me ricordava

La gonna di Jenny

In un ballo di tanti anni fa

L’uomo con il flauto se ne accorse e lo guardò incuriosito, quasi ad invitarlo a continuare. Edoardo allora si alzò in piedi, senza nemmeno rendersene conto estrasse la sua chitarra dalla custodia e, con dita leggere, iniziò a sfiorarne le corde. Il mendicante non si mostrò per nulla sorpreso, anzi, si spostò leggermente dal suo appoggio per consentirgli di mettere il piede contro la colonna.

Suonavano, mentre uomini in giacca e cravatta sbraitavano al cellulare, studenti chiassosi fotografavano la neve e tassisti stressati si spartivano ignari turisti.

D’un tratto arrivò una donna, aveva una giacca blu come gli occhi dell’uomo col flauto. Si fermò davanti ad Edoardo. Sentendosi osservato, lui abbozzò un timido sorriso, lo stesso di tanti anni prima quando le ragazzine lo sbirciavano dietro le fiamme dei falò.

La donna si avvicinò ancora di più. Anche lei conosceva quella canzone e ne accennò alcune parole muovendo le labbra, senza cantare. Continuarono così, con i due a suonare e lei poco lontano.

Finii con i campi alle ortiche Finii con un flauto spezzato E un ridere rauco E ricordi tanti E nemmeno un rimpianto

Sorrideva, felice come il protagonista della canzone.

Sorrideva, pensando che è bello vedere due occhi brillare.

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