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Ultima notte


Ticchetta la pioggia sulla casetta. Luca la chiama così, questa capanna di legno che ha pensato con la sua testa e costruito con le sue mani. Quando gli capita di ospitare qualcuno lui la tiene in serbo come gran finale: vieni che ti faccio vedere dove dormi stanotte, gli dice. E pure io, stanotte, dormirò qui. La casetta ha due stanze, più il bagno. Nel salotto c’è una scala che porta alla mansarda, un materasso a pochi centimetri dal tetto, non vedo l’ora di andarci per sentire la pioggia cadere ancora più forte.

Che fascino, le ultime notti. Quelle prima di una partenza non me le ricordo. Per dire, il 18 di giugno non so nemmeno a che ora fossi andato a dormire. Credo abbastanza presto, cosicché il domani potesse arrivare prima, come si faceva a Natale quando eravamo bambini. Per molti c'è l’ultima notte prima di un esame. Non l’ho mai vissuta con ansie particolari eppure quest’estate anche io ho vissuto la notte romana di Venditti, con i pini che la vita non li spezza, il silenzio per le strade del centro e le immancabili bombe delle sei che non fanno mai male. Arianna, Flavia, vi ricordate?

La notte all’ospedale, quella sì che è brutta. Qualche anno fa l’avevo passata in piedi, a fianco di un termosifone all’entrata del reparto di ortopedia. Una banale operazione al tendine d’Achille, ma io ero agitato come un mare in tempesta. A tenermi compagnia era stato un pescatore di parole e storie, un certo Ernest Hemingway. Per chi suona la campana l’avevo polverizzato, quella notte.

Questa notte invece il libro che sfoglio è stampato su carta lucida ed è stato scritto e disegnato dagli “alunni delle classi terze della Scuola Elementare di Albisola Superiore”. Me l’ha regalato poco fa il signor Giovanni. Un uomo alto, con i capelli bianchi e un po' mossi, lo sguardo buono e la voce calma, pacata. Giovanni parla in dialetto ligure di ponente, a volte dice belan e ha alcune vocali aperte, diverse dalle e strette di noi genovesi. Ho cenato nella sua trattoria, aperta apposta per me. Un edificio di chissà quante centinaia di anni, addirittura nella sala dove ci siamo attardati a chiacchierare si riuniva, nell’Ottocento, il consiglio comunale. Giovanni sa tutto del suo paese, delle sue strade, della sua gente. E prima di salutarlo siamo scesi al piano di sotto, per vedere il pezzo forte. C’è una macina del mulino, roba che avrà almeno tre secoli, mi dice lui come se fosse la cosa più naturale del mondo. Tempo fa con altri compaesani aveva pensato di creare un sentiero lungo i mulini storici della zona. Speriamo ci riesca, prima o poi.

Se questo luogo fosse un appartamento, mi troverei nell’anticamera di casa. Sono nell’entroterra savonese, che a chiamarlo così fa ridere perché siamo a cinque chilometri dalla costa. Ma chi conosce la Liguria lo sa, qui la montagna arriva con una curva un po’ più decisa, il mare va a nascondersi dietro colline severe, spigolose come dicono di noi i “foresti”. L’aria si fa più fresca, e stasera si respirava un buon odore di bosco bagnato, mischiato alla prima legna bruciata dalle stufe. Da Giovanni mi ha portato la figlia, Verdiana. Una ragazza che quattro mesi fa mi aveva invitato a passare anche da lei, con l’Italia che Gira. E che, ho scoperto stasera, vive nello stesso paese di Luca. Luca, che ieri parlando a un'amica diceva che lui ed io qualcosa di bello lo facciamo sempre, perché c’è una bella energia tra noi. Luca è uno che di viaggio e viaggi se ne intende. L’ho conosciuto due anni fa, per sostituirmi in quello che doveva essere il viaggio della mia vita. Da Praga alla Mongolia a bordo di una vecchia Suzuki. Avevo rinunciato, seppur a malincuore, e un’amica in comune mi aveva fatto il suo nome. “Se cerchi qualcuno che possa prendere il tuo posto in una follia del genere, quel qualcuno è Luca.” Ci eravamo dati appuntamento in un bar ad Albissola, a pochi metri dalla spiaggia, dove anche oggi siamo passati e mi è venuto da sorridere. Sorrido, rido, sono teso ma anche sereno, in queste ultime ore di viaggio. Ieri è bastato poco per farmi felice. Un bar dal nome esotico - Haiti, ma perché poi i bar qui si chiamano sempre Haiti che è uno dei posti più poveri al mondo, si rifletteva prima con Luca -, due signori all’apparenza scorbutici, una parlata finalmente familiare e un sole tiepido che per prenderlo bene di pomeriggio ti devi mettere un po’ storto, sulla spiaggia.

Sono a Savona, dicono tutti belin, ho visto il mare e la signora del bar mi ha appena detto che era già un po’ che non vedeva due occhi che parlano.

Questo è stato il messaggio che ho mandato a mia mamma, dopo aver fatto il bis della pasta e fagioli cucinata dalla signora, che nel frattempo ho scoperto chiamarsi Anna. Anna oggi mi ha detto che mi aspetta per la prossima volta. “Buon rientro Matteo, e tante belle cose!”.

Poi ieri sono andato a Varigotti. Un paesino che sbuca dopo una galleria in curva, con tante case gialline con la porta di ingresso affacciata su una spiaggia lunga e spaziosa, così insolita per noi genovesi, abituati a scogli e sassi. L’acqua era piatta, azzurra, non troppo fredda. Ho lasciato il fedele cavalletto, mi sono tolto la maglietta de l’Italia che Gira e mi sono tuffato. Uno dei bagni più belli della mia vita, ad ogni bracciata mi sentivo più forte, davanti a me solo un orizzonte tagliato a metà. Non una barca, una voce, solo il mare, il mio mare. Tornato a riva c’erano cavalletto, maglietta e pure microfono bagnati fradici, travolti da un’onda un po’ più forte delle altre. Ho preso il bus per Savona con la giacca che toccava la pelle ancora tirata dal salino, roba che se abbassavo un poco la cerniera sembravo un maniaco. Io che quella giacca l’ho presa in prestito qualche giorno fa, involontario regalo di Lorenzo. “Matte mi sono dimenticato il giubbotto in Val d’Aosta! Me lo prendi?”

Certo, ho detto io. E siccome nello zaino non ho troppo spazio, ho pensato di mettermelo addosso. Lore, se mi stai leggendo spero che tu non ne abbia a male. Sappi che ieri mi hai evitato un bel raffreddore e di questi tempi si sa, meglio lasciar stare certi malanni.

Ecco, il viaggio sono pezzetti che si incastrano alla perfezione, e che se osservati con cura compongono un mosaico perfetto, in cui nulla è fuori posto. Stasera, prima di andare a cena, abbiamo fatto due passi per Ellera, il paese della trattoria col mulino, di Giovanni e di sua figlia Verdiana. Da qualche anno le strade del borgo sono state abbellite da alcune opere in ceramiche. A vederle mi sono sentito a Orgosolo, in Sardegna, a Diamante in Calabria, e in tanti altri borghi incontrati perlopiù all’inizio del viaggio, quando l’estate era appena iniziata, i miei vestiti meno scoloriti e la mia faccia forse meno stanca, ma di certo pure più inconsapevole. Ora è tutto diverso, ora è davvero l’ultima notte, e me ne sono accorto perché prima di cena un signore anziché dire vicolo ha pronunciato la parola magica: caruggio.

Sarà anche per questo che subito dopo, seduti a tavola, mentre mangiavo il primo pezzo di focaccia dopo centododici giorni non parlavo più. Le voci delle altre persone mi arrivavano lente, lontane, distorte. Ero nel mio mondo, e pregustavo il sapore di casa. E adesso, a sentire ticchettare le dita sulla tastiera, guardo lo zaino poco lontano. I vestiti sparsi per il pavimento, che domani rimetterò dentro con cura per l’ennesima e ultima volta. Cerco di ricacciare il pensiero di quello che sarà, non voglio immaginarmi il rientro a Genova, non prima che accada davvero. Ho chiesto a Luca di bendarmi e di portarmi in un posto che vuole lui, non importa dove, so solo che quando aprirò gli occhi sarà finito il viaggio. E inizierà qualcosa di diverso, di cui ancora non conosco né forma né sostanza.

Ma ora basta futuro. Basta pure con la pioggia, che nel frattempo ha smesso di scendere. Nel silenzio della casetta sento il rumore di un viaggio scorrere lento, come il torrente di Ellera che per secoli ha alimentato il mulino. Come i ricordi, i volti delle persone incontrate. I dialetti, i modi di dire, i sorrisi. Le albe e i tramonti. Le notti in solitaria, dentro alla tenda.

Questa è l’ultima notte, e che notte.

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