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  • Immagine del redattoreAlitaki

Sensazione unica


Ci sono poche altre cose che mi spaventano al mondo come la gradinata Nord in un derby, magari quando noi siamo sopra di un gol (ultimamente capita spesso 😊) e loro attaccano a spron battuto. Proviamo a seppellire ogni tentativo di azione offensiva con fischi, imprecazioni e quant’altro, eppure ogni tanto loro riescono ad arrivare dalle nostre parti, ed è in quel momento che se alzi gli occhi un poco oltre il campo vedi quel mare (oddio, facciamo laghetto dai) scuro e compatto che si muove, cresce, si agita e vorrebbe esplodere in un grido di gioia rappresa. Poi recuperiamo palla, ci muoviamo a centrocampo, possiamo rifiatare e iniziamo a cantare, forte, con le mani al cielo. I nostri ragazzi (sì, quelli che saranno pure milionari viziati ma per oggi, almeno oggi, sono i nostri ragazzi) si muovono, corrono, sanno che questa partita per tutti noi vale una supremazia lunga sei mesi, una gioia unica e incomparabile con tante altre vittorie, sportive e non. Li guardi, ai nostri, e pensi che quando giochiamo contro di loro la nostra maglia è ancora più bella. Il blu che cerchia il bianco, il rosso e il nero è ancora più acceso e vivo. E chiamateci pure ciclisti. Quando entro allo stadio per vedere il derby mi sembra di tornare ragazzino, il venerdì si andava a prendere il biglietto con il cugino in qualche club per la partita della domenica, e gli altri giorni di tutto l’anno li si passava a leggere il Secolo, discutere di formazioni, gol fatti e non dati, avere una sola e unica passione.

Passione. In un’accezione antica del termine rimanda a un’idea di profonda e tormentosa sofferenza, non a caso la parola deriva dal latino pati, vale a dire patire, soffrire appunto. Solo chi è venuto una volta allo stadio a vedere un derby sa cosa vuole dire la nostra (in questo caso ci siete dentro anche voi, cugini) passione. Tutto parte dalla partita prima, in cui al fischio finale, specie se si è giocato in casa, si inizia a caricare e caricarsi. I sette giorni che precedono la stracittadina sono un continuo sfottò, velato sempre da quell’aplomb genovese che si starà forse perdendo nelle nuove generazioni ma che assicura sempre un prendersi per il culo più raffinato di altre piazze (ma non per questo meno velenoso). Vincete voi perché siete i favoriti. No aspetta nel derby vincono i più deboli, quindi questa sarà la vostra partita. Tanto prima o poi lo dovete vincere. E mentre si fanno gli auguri a destra a manca in cuor nostro abbiamo, in realtà, solo un pensiero, quello di uscire dal campo con le braccia al cielo e gridare a “quegli altri” che siamo noi i più forti. Come quel derby di Serie B, sono passati quindici anni, quando il nostro Baciccia li salutava con la mano e noi godevamo come un riccio a vedere la corsa folle di Conte sotto la Sud, dopo aver segnato di ginocchio. O come il colpo di testa di quel matto di un barese, l’anno magico della Champions, io che non capisco più niente e prendo in braccio mio fratello, lo alzo come fosse una coppa e quasi ho le lacrime agli occhi dalla felicità. Già perché il derby vuole dire anche cadere nell’amarcord, prima della partita mentre si beve una birretta o dopo, magari dopo una tragica sconfitta (le sconfitte sono sempre tragiche al derby ndr) e consolarsi un poco con i ricordi. C’è un momento, il giorno del derby, in cui capisci che non sarà una partita come le altre, me l’ha confessato tempo fa anche chi è venuto a vedere due partite in tutta la sua vita. E’ quando sei già dentro allo stadio, in quell’attesa che per noi tifosi divora il fegato, e parte il primo coro di sfottò della giornata. Che sia un chi non salta è un genoano, o un qualcosa di peggio, si avverte l’eccitazione negli occhi della gente, e poi di nuovo tutti a riguardare l’orologio, che poi se uno ci pensa è pure masochista come cosa, in fondo stiamo guardando quanto tempo manca alla sofferenza più grande. E allora perché continuiamo a fare tutto questo? Perché non ce ne stiamo a casa a guardarci una serie su Netflix, o a mangiare una pizza con la fidanzata, o con gli amici, quelli che “non lo seguo più il calcio perché è un mondo che fa schifo”? Perché poi la partita inizia, tra fumogeni che ti stringono la gola, bandiere che sventolano come le vele di una nave e coreografie scintillanti. Le squadre si affrontano, a volte si picchiano pure. Tutto lo stadio inizia a cantare, se giochiamo in casa anche i distinti delle volte si alzano, rispondono all’invito di chi dopo dieci minuti non ha già più la voce. A volte tutto questo non basta, e allora sì che la gradinata davanti a te esplode, rabbiosa, e loro tutti abbracciati ad esultare insieme ai tifosi, com’è giusto che sia. Ma quando invece il nostro attaccante salta di testa, o tira di punta, o collo, o tacco, quando insomma la palla rimane per un attimo sospesa e poi, finalmente, gonfia la rete della porta giusta, ecco che cambia tutto. Ecco che dietro a questa maledetta malattia c’è molto di più. C’è un sentimento, forte. C’è un’emozione, vera.


Buon derby, e forza Sampdoria.

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