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  • Immagine del redattoreAlitaki

Questi tre anni



Tanti anni fa - racconta l’uomo più vecchio - volevo farla finita. Così una mattina mi sveglio quando fuori è ancora buio pesto, guardo mia moglie che ancora dorme, poi prendo una corda e salgo in macchina. Arrivato dall’albero mi fermo, provo a legare la corda intorno a un ramo ma ogni volta il nodo si scioglie. Decido di arrampicarmi: stringo bene il cappio ma poi, toccando l’albero, con la mano sento qualcosa di inaspettato. È un gelso. Intanto il buio si è diradato, in fondo alla pianura si intravede il chiarore che precede l’alba. Dei ragazzi vengono verso di me. “Scuoti l’albero!”, mi chiedono. Obbedisco. Loro, felici, raccolgono i gelsi caduti a terra. Li mangiano con avidità, poi ringraziano e tornano a camminare, diretti verso scuola. Rimango a guardarli qualche istante, quindi sciolgo il nodo, stacco il gelso dal ramo e ne prendo degli altri. Torno a casa, mia moglie dorme ancora. Guarda, le dico aprendo il palmo della mano. Ho raccolto un gelso per te. Assaggialo, è dolcissimo.

L’uomo al volante ha ascoltato il vecchio in silenzio, mentre guidava. Ora anche il vecchio guarda verso la strada.

Capisci? Quel gelso mi ha cambiato la vita.*


Finalmente nel mare si intravedono chiazze di luce. Di sole e cielo azzurro. invece, manco a parlarne. E che dire dell’orizzonte, da giorni nascosto in una foschia fastidiosa. L’altra sera è scesa persino la nebbia. Per chi non è abituato suscita un certo fascino, ma solo all’inizio. Se rimane è facile piombare nella malinconia, specie quando si è alla vigilia di una partenza. Come sempre il grosso del problema sarà questa città d’ardesia e palazzi sbilenchi. Con un mare che diventa compagno onnipresente quando viaggi lungo l’Aurelia. La luce come privilegio per i piani alti se sei nei caruggi. Genova mi mancherà. Genova è stata la costante di questi ultimi tre anni. Iniziati come finiscono, con una malinconia densa e profonda, la stessa provata nel 2019 quando lasciai la Galizia. A Finisterre pensavo di avere trovato una mia dimensione, dolce chimera degli ultimi anni. Sono tornato a Genova con un sogno di fuga all’orizzonte, verso la stessa terra dove ora sono diretto. Quando la pandemia ha spazzato via ogni tipo di speranza non mi sono dato per vinto, ricalibrando piani e programmi per vedere davvero l’Italia. L’ho girata per quattro mesi, molto spesso ospite di persone sconosciute prima, poi divenute stelle luminose a indicare la rotta. Quindi di nuovo Genova, l’energia sprigionata da un viaggio che, poco a poco, cede il passo alla vita normale, l'affannoso tentativo di spiegare e spiegarsi in una dimensione così conosciuta da diventare ben presto opprimente. A dicembre 2020 ho salutato il mio amico, come ci chiamavamo tra di noi. Sono grato al destino per averlo potuto fare per bene. Abbiamo trascorso gli ultimi mesi a parlare, a raccontarci. Nell’ultimo derby visto insieme il suo Genoa ha trionfato. E poi sempre Genova, un appuntamento a dicembre nella mia libreria preferita, un sorriso di occhi accentuato dalla mascherina sul volto. Il miagolio di un gatto che sembra il pianto di un neonato nella notte che precede la neve, in questa meravigliosa campagna sul mare dove ho trovato casa. Le mattinate di gelo, trascorse a scrivere con costanza e dedizione, interrotte da una corsa nei boschi, quando sognavo il successo. Due occhi che continuano a ridere, mi aspettano dietro a una porta. Una giornata di sole a Cervo, e poi un tramonto sfumato a Borgio Verezzi. Quindi la sofferenza. Antichi fantasmi, forti fastidi, tante incertezze. Il viaggio o, per meglio dire, le fughe come anestesia. Spostamenti veloci, di cui spesso rimangono solo frammenti. Un autunno piovoso, che fa acqua da tutte le parti. Idee di rimettersi in cammino che si scontrano con la voglia, forse indotta, di provare a costruire qualcosa qui a Genova. Giovani uomini che si tormentano come me sul senso di questa vita, e sull’apatia della società che ci circonda. Poi una notte a Milano, un incrocio di sguardi che diventa simbolo di un’attesa piena di fede. La primavera e “le cose belle che non volano via”, alcuni racconti scritti d’impeto e poi altri viaggi. Su tutti, Nepal e le notti romane. La bella, ritrovata convinzione di essere sé stessi quando si architetta una sorpresa. La gioia fugace che lascia lo spazio allo smarrimento di chi non capisce. Una pausa, grande quanto inconsapevole, della mia costante ricerca, di “questo mio eterno incespicare”. L’estate, il caldo. Opprimente quasi come un avvertimento che da dentro spinge, quasi supplica per una ripartenza. Così eccomi in Latinoamérica, ancora ferito ma deciso a riprendere in mano un certo discorso. Un lago ad alta quota, che trova il tempo che ha. Il giorno dopo vedo le canne sulla riva scosse dal vento. Il cielo promette un’alba dorata, di cui le prime avvisaglie sono dei bagliori tremolanti sulle acque del lago. È stato un po’ come ritrovarsi tra le mani quel gelso. Dopo non mancheranno altre battute d’arresto. Le sofferenze, alcune attese e pure auspicate, altre generate da illusorie speranze. Incomprensioni vere o presunte, la gratitudine per chi vuole e riesce ad abbracciarmi. Si accetta tutto, specie se grazie a un’amica speciale impari ad accogliere le emozioni. Finisce che io il filo torno a vederlo. Negli ultimi mesi era così sottile, ora è talmente spesso da sentirne la consistenza, e addirittura intuirne la direzione. Così il viaggio non è più un sogno romantico, ma un sentimento duro, vero e resistente a qualsiasi scossa emotiva.

Oggi è l’ultimo giorno intero che passerò a Genova. Non farò come altre volte giri nei vicoli alla ricerca della commozione, che pure arriverebbe precisa, puntuale e dirompente. Passeggerò lungo il mare, ripensando a questi e altri pezzetti della mia vita recente. Certi fanno ancora rumore, vogliono essere ascoltati perché hanno ancora molto da dire. Altri sono sedimentati ma non per questo dimenticati, anzi. Tutti hanno una loro precisa collocazione, e se ora non lo capisco pazienza, occorre solo aspettare.

Più tardi magari vado da uno scoglio. Nell’estate appena finita è stato sollievo e riparo. La prima volta mi ci ha portato un amico, e quando mi sono tuffato dal punto più in alto ho sentito quella paura, gioia e brivido di cui è così densa la vita. Da quello scoglio il mare fa ancora più rumore, specie in questo giorno di vento da Sud. In quell’acqua che si fa schiuma, nell’aria densa e salata, in un continuo andare e tornare c’è tanto di questi ultimi tre anni.

Poi domani si chiude lo zaino e si parte sul serio. Tra i tanti dubbi, me ne viene uno in più proprio mentre finisco di scrivere: in Latinoamérica ci sono i gelsi? (*Il dialogo iniziale è tratto dal film "Il Sapore della Ciliegia".)

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