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  • Immagine del redattoreAlitaki

My outback home


Mi trovo a bordo di un aereo, di ritorno da una faticosa trasferta di lavoro. Ho trascorso una settimana nella regione del Pilbara, 1500 km a nord di Perth. Le temperature nella zona raggiungono facilmente i quaranta gradi, i cantieri si trovano nel mezzo del nulla, minuscoli avamposti di civiltà in uno sconfinato deserto di polvere rossa, che sarà pure bella per le foto ma si infila ovunque e sporca tutti i vestiti.

Lo chiamano Outback.

Gli alloggi non sono altro che angusti container attaccati l’uno sull’altro, sembra quasi di essere in un campo di accoglienza per terremotati. Non è certo un caso se nei bagni comuni ci sono poster che promuovono assistenza psicologica di vario tipo. Gli operai che vi pernottano sono migliaia, la mattina tutti in marcia nelle loro tute gialloblù, con gli scarponi a crepitare sul terreno costantemente arido. Una volta terminato il briefing mattutino si sale a bordo di enormi fuoristrada, trovando nella gelida aria condizionata un po’ di conforto dal caldo già soffocante. Guai a dimenticarsi la cisterna dell’acqua, se qualcuno ne è sprovvisto e viene fermato per un controllo stradale ci può scappare la multa, come per la cintura di sicurezza. Una volta arrivati sul posto si scava sotto il sole cocente, lavorando lungo linee ferroviarie percorse da treni chilometrici, con enormi vagoni che trasportano ferro dalle miniere dell’interno verso la costa. Ad accomunare la gente non è solo il buffo accento, talmente sguaiato che a volte pensi che la mascella si stia per slogare, ma l’espressione sul viso. Stanca, esausta, severa. La sera, una volta rientrati, c’è giusto il tempo per una doccia, cena frugale, veloce video saluto a casa – ammesso che la connessione internet lo conceda – e poi di corsa a letto. Implacabile come il martello sull’incudine, la sveglia suonerà il giorno dopo alle cinque, se non prima. A proposito, i turni di lavoro possono durare anche dodici ore al giorno e prima di tornare a casa passano almeno due settimane, a volte anche tre. E’ facile intuire come il motivo per cui si è disposti a fare tutto ciò sia solo uno: i soldi. Parecchi a dirla tutta, roba che in una decina d’anni sei sistemato per la vita.


Il mio aereo è ormai allineato verso la pista di atterraggio, l’hostess passa veloce sfiorando i sedili per l’ultimo controllo. Il mio sguardo distratto si posa fuori dal finestrino, è sera e le luci scintillanti dei grattacieli sono sempre più nitide. Poco più in là c’è il mare. Ops, pardon, volevo dire l’oceano, che è tutta un’altra storia. Con le sue onde lunghe e travolgenti, le spiagge chilometriche e tutte uguali, non c’è niente di mare in quell’immensa distesa d’acqua senz’anima. Più o meno a metà strada tra i grattacieli e l’oceano c’è anche un minuscolo appartamento, dove vivo da quasi due anni.

Era un pomeriggio di fine agosto, di quelli in cui in ufficio si sonnecchia perché il grosso dei colleghi se la spassa ancora in ferie, quando fui convocato dal grande capo:

“Tra una settimana parti per Perth, hanno bisogno di te”.

Di me? Io che ero un lavoratore interinale, con nemmeno due anni di esperienza. Io che tornato al computer mi affannavo a cercare dove fosse quel Perth di cui sapevo vagamente l’esistenza, giusto per scoprire che mi stavo in realtà confondendo con un’altra città, peraltro in Scozia e non dall’altra parte del mondo.

“Vai a fare affiancamento ai colleghi locali. Due, massimo tre settimane, poi torni in Italia”.

Mi allaccio la cintura, riporto lo schienale in postazione eretta e, intanto, sorrido amaro. Due, massimo tre settimane, mi ripeto come un mantra. Ormai si vedono gli hangar dell’aeroporto, il carrello è abbassato, le luci in cabina sono spente.

D’improvviso, forte e inaspettato, sento qualcosa.

E’ una sensazione che mai pensavo di poter avvertire in quel frangente.

Mi sento felice.

Ora l’aereo è atterrato, trotterella sulla pista in attesa di attraccare al terminal ed io continuo ad avere un bel sorriso da ebete stampato in volto. Non si tratta della fine della trasferta e nemmeno dei giorni di festa che mi aspettano. E’ una felicità diversa, consapevole, quella di quando sai che a breve infilerai le chiavi nella toppa della porta, accenderai la luce della cucina e poi, finalmente, potrai dire: sono tornato.


Amata da lontano, odiata - a volte - da vicino, l’Australia per me rimarrà sempre la mia seconda e, in alcuni momenti, persino prima casa.

Dentro quel grosso scatolone di sabbia ci ho trovato gente molto rilassata. Mi è bastato iniziare una conversazione qualsiasi per imparare ben presto la formula magica.

No Worries!

Una sorta di Hakuna Matata o, se preferite, sta’ senza pensier. Perché la vita può riservarti tante scocciature ma quando sei con una bella cassa di birra ad ammirare un tramonto da favola sull’oceano, magari con la tua fedele tavola da surf a fianco, beh... i problemi sono lontani, proprio come l’Australia.

No worries, mate.

Mate è l’amico. Non quello fraterno, per cui noi latini saremmo disposti a buttarci nel fuoco. Il mate può essere chiunque, dal cassiere del supermercato che aspetta pazientemente che svuoti il carrello mentre dietro si forma la fila o il super palestrato che scontri inavvertitamente in un locale. Quasi certamente non stringerai alcun rapporto durevole con nessuno dei due ma in entrambi i casi arriverà un bel sorriso comprensivo e inaspettato.

No worries mate. Facile no?

Gli australiani sono gente alla mano, che prendono le cose alla leggera, a meno che non si tratti della loro incolumità, per la quale hanno un’attenzione quasi maniacale. Difficilmente mi dimenticherò gli specchietti retrovisori collocati ad ogni angolo dell’ufficio per evitare collisioni tra colleghi, sempre con l’immancabile mug (tazza) in mano colma di long black (miscuglio di caffè allungato con abbondante acqua calda). Per non parlare della formula di rito con la quale si aprono le riunioni, è detta safety moment e consiste nell’enfatizzare un potenziale pericolo sul posto di lavoro. Ricordo i sinceri complimenti ricevuti dal mio capo quando chiesi di prestare la massima attenzione ai colleghi muniti di cravatta nell’utilizzare la macchina distruggi documenti. Una distrazione può essere fatale.

Per le strade di questo sconfinato paese ho respirato a pieni polmoni lo spirito di uno stato giovane e forte, promotore di un modello meritocratico, capace di valorizzare chi lavora sodo e condannare, socialmente ancor prima che giuridicamente, chi invece prova ad approfittarne. E scusate se è poco.

Al contempo ho toccato con mano un triste negazionismo, che tende a sminuire il quasi totale sterminio degli aborigeni – gli unici, veri australiani – relegando il tutto a un episodio storico ormai passato. Come se i pochi superstiti, confinati in riserve nella stessa terra che fu dei loro avi, non rappresentino una ferita ancora sanguinante. E’ stato poi ammirando il tramonto scolpito sul cuore rosso dell’Australia, Uluru, che ho potuto riconciliarmi con tutto ciò. Se capitate da quelle parti non siate irrispettosi e rinunciate alla scalata sulle sue pendici. Sarà più che sufficiente farci un giro intorno, quando la luce inizia a calare, la calura concede una tregua e le crepe della roccia si colorano di tinte assurde. Anzi, così facendo capirete davvero perché questo sia considerato il luogo sacro per antonomasia dalle popolazioni locali.

In Australia mi sono tuffato nelle acque di un blu inaudito, sfiorando con le dita pesci variopinti e salutando tartarughe dalla faccia rugosa. A bordo di uno splendido brigantino d’inizio Novecento ho esplorato atolli incontaminati, sparsi come un pulviscolo dorato lungo la barriera più preziosa al mondo, quella corallina.

Ho visitato la città più bella, Sydney, per rimanerne perdutamente innamorato. Scendere dalla stazione di Circular Quay, spalancare gli occhi e ritrovarsi l’imponente Harbour Bridge sulla sinistra, l’armoniosa Opera House sulla destra e, nel mezzo, una baia grandiosa attraversata da pittoreschi battelli: questo è uno dei più bei spettacoli che l’uomo e la natura abbiano mai messo in scena. Questo è Sydney.

Come un bambino sono rimasto a bocca aperta nel conoscere animali buffi, divertenti e unici. La prima volta che mi sono casualmente trovato dinanzi ad un canguro stavo per svenire dall’emozione. Vederlo poi allontanarsi, compiendo ampi e graziosi balzelli, mi ha quasi fatto uscire le lacrime. Ho provato ad interloquire con koala assonnati, i quali non mi hanno però ricambiato nemmeno di uno sguardo, intenti com’erano a sgranocchiarsi un ramo di eucalipto. E poi mi sono coccolato il mio marsupiale preferito, il vombato, un simpatico orsacchiotto ciccione dall’espressione talmente dolce che vorresti tenerlo abbracciato per tutta la vita.


Qui ho pianto e gioito. Sono cresciuto e nel farlo ho commesso i miei sbagli. Ho scoperto una terra che sapevo essere tremendamente lontana e ora sento assurdamente vicina.

In Australia ho lasciato un pezzo del mio cuore e prima o poi ci tornerò, giusto per vedere se lì, a casa, stanno tutti bene.




(foto di Alessio Rodinò)

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