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  • Immagine del redattoreAlitaki

Lavapiés


Ieri mattina mi sono svegliato ed ero a Marettimo. Penso spesso a come possa essere la vita su quell’isola in inverno, quando il baccano estivo è lontano da venire e di notte si sente solo vento e mare. A Marettimo ci sono stato più di un anno fa, da solo, in un ottobre che non voleva portare l’autunno, e i pochi giorni trascorsi dalla signora Lea sono un ricordo bellissimo. Dormivo in una camera appoggiata sopra a un terrazzo, e quando ho scoperto che la vista era ostruita da un grosso serbatoio per l’acqua ci ero rimasto un po’male. La mattina in cui me ne sono andato già sapevo invece che mi sarebbe mancato pure quello, pure il serbatoio, e sentivo un velo di nostalgia stringermi il collo.

I miei viaggi passati sono una piacevole ricostruzione di dettagli, di strade percorse, penso a come avevo passato un pomeriggio, che cosa avevo mangiato per cena, a volte spunta una vecchina con cui avevo scambiato due parole, a Marettimo ricordo di aver perso un orologio che tenevo al polso da almeno dieci anni, o forse di più.


Per i viaggi da fare è diverso, non penso, quando sento il bisogno di andare lo faccio, se il posto è lontano compro il biglietto, se è vicino mi metto le scarpe, lascio che a travolgermi sia l’energia, un po’ come quando ho voglia di raccontare una storia. Me ne hanno raccontata una assurda, di storia, che ha dentro viaggi, amori, santoni indiani e il fratello di Craxi. L’ho ascoltata seduta allo sgabello di un mercato rionale di Lavapiés, il quartiere meticcio di Madrid, mentre mangiavo un’arepa con carne e formaggio. A prepararmela è stata una coppia venezuelana, lui un sorriso bonario, faccia tonda e pochi capelli, lei la classica signora che a guardarla negli occhi ci vedi la mamma ancor prima che la donna. A lavorare con loro c’è pure un ragazzo napoletano, dà una mano in cucina ma in fondo lui è un attore, e con gli occhi grigi e pieni di luce mi ha detto che tra un mese andrà in scena in un teatro vicino. Anche settanta, forse ottant’anni fa, c’era un uomo che calcava un palcoscenico. Un tenore giovane e bello che viveva a Venezia e ogni giorno aveva una donna diversa. La sua strada si incrociò con quella di una donna di Washington, lei adorava l’Italia, tanto che ci veniva spesso, e quando lo vide fu un colpo di fulmine, chissà che aria stava intonando quando il suo sguardo cadde sugli occhi palpitanti di lei. Appena tornata a casa la donna, che aveva tre figli e un marito, confessò subito tutto, erano ancora in auto, sulla strada di ritorno dall’aeroporto.

“Vado in Italia, almeno per un anno, poi si vedrà. Voglio vivere la mia storia d’amore”.

E i figli? Quelli rimasero al padre anche se lui, molto preso dal lavoro e forse da altro, li affidò a una famiglia cinese. L’amore con il tenore fu travolgente e la donna decise ben presto di rimanere nel paese più bello del mondo, con a fianco l’uomo della sua vita. Ma un giorno la sua figlia più grande… Mi fermo qui, perché quello che succede dopo in questa storia è incredibile e credo che Federica, la ragazza che me l’ha raccontata, nonché la nipote di questa donna innamorata e coraggiosa, dovrebbe davvero scriverla.


È bello camminare per Lavapiés, questo quartiere un po’ sporco, che forse finirà per vendere la sua anima, forse lo sta già facendo ma intanto c’è un vecchio che solletica una chitarra, e sulla panchina vicina ha una valigia rossa e sgualcita.


“Si resuena el Avapiés en mí, como fondo sobre todas las resonancias de mi vida, es por dos razones: Allí aprendí todo lo que sé, lo bueno y lo malo. [A rezar a Dios y a maldecirle]. A odiar y a querer. A ver la vida cruda y desnuda tal como es.”

Se Lavapies risuona in me, come sfondo in tutte le risonanze della mia vita, è per due ragioni: lì ho imparato tutto ciò che so, il bene e il male. [A pregare Dio e maledirlo]. A odiare e amare. A vedere la vita pura e nuda così com'è.


Parole dello scrittore Arturo Barea Ogazón, due operai stanno sistemando dei mattoni con questa scritta per terra nella piazza dietro al mercato rionale, e intanto io ripenso al racconto di Federica. Sono partito da lì per approdare ieri mattina al piccolo porto di Marettimo, che quando ero arrivato col traghetto si era animato di un baccano stanco e fugace.


Ieri mattina poi mi sono messo l’orologio, ce l’ho da qualche mese, e poi ho infilato le scarpe, oggi il mio viaggio mi riporta a Lavapiés. Un leggero male alla testa mi accompagna mentre scendo la stessa discesa dove il giorno prima avevo visto il vecchio con la chitarra. Entro in un bar abbastanza moderno, è a fianco al mercato dove ieri ho mangiato un’arepa e ascoltato una storia, sotto gli occhi di una donna che sembrava una mamma. Ci entro con fare distratto, e intanto penso che oggi questo quartiere è solo una strada in salita e un sole caldo che mi batte negli occhi. In una piazza vicina due uomini spruzzano del disinfettante per pulire la strada, l’odore mi infastidisce, e intanto mi siedo appoggiato a un muro colorato, dei ragazzi vestiti in modo alternativo scattano selfie, faccio altrettanto.

Poi torno a casa e mentre scrivo, incuriosito, cerco la frase di Ogazón, continua così:


“Y a sentir el ansia infinita de subir y ayudar a subir a todos al escalón de más arriba. Ésta es una razón.”

E a sentire l'infinito desiderio di salire e aiutare tutti a salire sul gradino più in alto. Questa è una ragione.


Guardo dal balcone: un ultimo raggio di sole illumina una grondaia sbilenca. Dietro, un po’ nascosto, c’è il solito azzurro di Madrid, accarezza i tetti della città, dei suoi quartieri, pure di Lavapiés. Un cielo che dal gradino più alto ascolta in silenzio tutte le storie, i viaggi già fatti, quelli ancora da fare e che a guardarlo ti senti piccolo e bello, come un’isola in mezzo al mare.




...E la seconda ragione, Arturo? “La otra razón es que allí vivió mi madre. Pero esta razón es mía.”  



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