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  • Immagine del redattoreAlitaki

Lo sfavillio di Lisbona

Da qualche tempo non ho più la smania di dovere esplorare tutto il mondo e pure oltre, di dover riempire la mappa con tante bandierine, come pure avevo iniziato a fare in camera mia, qualche tempo fa. Sono sempre più intollerante a fare le code e nelle città non mi piacciono gli spazi sconfinati, da dove scappo appena possibile, cercando rifugio nella prima stradina stretta e tortuosa che trovo. Ho sempre più voglia di natura, silenzio, pace. Quando penso alle mete di viaggi futuri queste non sono per forza così lontane come un tempo. Sto invecchiando, e d'altronde se non fosse così non avrei deciso di andare a vivere in un paesino di qualche migliaio di anime. Il mio primo viaggio da "grande" l'ho fatto in Scozia, più di quattordici anni fa. Ricordo che allora dovevo sempre avere con me mappa, macchina fotografica, guida turistica. Sapevo per filo e per segno dove sarei andato a mangiare la sera, dormire il giorno dopo, ogni tappa era stata pianificata a tavolino. Seguivo scrupolosamente gli itinerari - non miei, ovviamente - e appena scoprivo di aver preso la svolta sbagliata tornavo subito indietro. Oggi invece a Lisbona mi sono perso. No, non dico così per dire, ma sul serio. All'uscita dal castello ho visto una discesa invitante, insolitamente deserta. Mi ci sono buttato a capofitto e sono dovuto passare per ben tre volte dallo stesso punto per capire di essere finito in un vicolo cieco. Non mi è dispiaciuto affatto, anzi. Oggi poi ho sentito sulla mia pelle la pioggia obliqua di cui parla Vecchioni in una bella canzone dedicata a Fernando Pessoa. Sul castello in cima alla città c'è una torre staccata dal resto del complesso, per arrivarci si deve percorrere una scalinata ripidissima. Mente l'ho fatto stavano per scendere le prime gocce dal cielo, ancora più grigio che nei giorni passati. Uno, due, cinque, dieci gradini ed è stato come volare sopra Lisbona. Ho sfiorato i tetti rossi, ho visto brillare i palazzi chiari, così luminosi anche con il brutto tempo, e sullo sfondo ho salutato con rispetto il Tago, immobile. Emozionato, ho ripensato a quando mi sono innamorato di Lisbona, o perlomeno dell'idea che mi ero fatto di lei. È stato leggendo questo incipit: "Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava". Oggi ho lasciato che fosse lei, Lisbona, a prendermi per mano. Con le gambe via via più stanche ma con il cuore un pochino più leggero mi sono aggirato per mercati di antiquariato, insolitamente silenziosi. Ho bevuto un caffè in mezzo a operai in vena di scherzare e poi il 28, sempre lui, mi ha scampanellato più volte mentre io, imbambolato, ero in mezzo alla strada. Poi non so nemmeno come mi sono ritrovato in cima a una scalinata, l'ennesima. Per terra le solite mattonelle bianche, un muro decrepito da un lato, una casa appena ristrutturata dall'altro. E lì in fondo l'acqua del Tago, anche se io ho subito pensato al mare.

È stato in quel momento che Lisbona, oggi, mi ha fatto capire un'altra cosa circa al mio rapporto in continua evoluzione col viaggio: a volte ci vuole qualcuno al tuo fianco. Questa città è troppo complessa per capirla da solo, in così poco tempo. Devi saper aspettare, ascoltare, amare e avere qualcuno vicino che possa fare altrettanto.

Solo così, forse, un giorno sapró se è vero che Lisbona sfavilla.

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