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Il mio zio di Francia


Fu durante un Ferragosto di tanti anni fa che conobbi il mio zio di Francia.

Mi trovavo in un piccolo borgo di montagna in Piemonte, teatro delle mie estati d’infanzia più belle. Per l’occasione le famiglie del paese organizzavano un pranzo d’altri tempi a base di polenta, salsiccia e vino rosso per tutti. Il vero evento della giornata era però un altro. Un torneo dedicato allo sport per eccellenza di quelle valli: le bocce alla francese o, meglio, petanque. La rassegna era talmente conosciuta che veniva gente dai paesi vicini per parteciparvi. Tutti con i loro astucci consunti di pelle contenenti le preziose sfere metalliche. Tutti con una mira infallibile e ben poco spirito di De Coubertin nel sangue. Poche storie, chi veniva a quel torneo veniva per vincere.

Ecco perché la mia partecipazione non era vista di buon’occhio. Avevo quell’età in cui non ero certo più un bambino - e pertanto non mi si poteva negare l’iscrizione - ma di certo nessuno, tra gli indomiti bocciatori, si augurava di ritrovarsi in coppia con quel moccioso, peraltro nemmeno del luogo.

Le loro preghiere non passarono inascoltate; ricordo alla perfezione il momento del sorteggio.

«Matteo con.. Jean - Claude!»

Mi si fece incontro un omone dall’aspetto un po’ burbero, il viso abbronzato e solcato da ampie rughe, i capelli di un biondo divertente, quasi arancione.

«Mi spiace che osgi perdi» Mi avevi subito detto con un accento francese marcato, che bene si intonava con la tua voce profonda e rauca, logico risultato delle decine di Gauloises che polverizzavi ogni giorno.

Se io a bocce ero una frana tu non eri certo un granché. Sconfitti alla prima partita con conseguente eliminazione dal tabellone principale, ci eravamo concessi il bis al torneo di consolazione.

«Merde!»

Era la tua imprecazione preferita. Ad ogni boccia non bocciata ti usciva fuori con una r così elegante che sembrava impossibile essere una parolaccia. Accucciato nella tua posa da gioco, ti rialzavi, incrociavi i miei occhi preoccupati e mi regalavi il più dolce degli sguardi, quasi a scusarti per le tue performance. Infine guardavi di sbieco tua moglie, che ci osservava sorridente poco lontano, anche lei con l’immancabile sigaretta tra le labbra.

Sono sempre stato un pessimo perdente, e se non fosse stato per te anche quel pomeriggio non mi sarei di certo sottratto alle mie brutte abitudini. Non fu così. Nonostante in due partite avessimo fatto sì e no due punti, io quel giorno non avevo proprio motivo per rimanerci male. O meglio, avevo ben altro a cui pensare, assorto com’ero nell’ammirare il mio eroe perdente. Con quella parlata così strana, il modo di fare così affabile, la faccia così buona, mi avevi conquistato. Tu, il mio zio di Francia.

Da quel giorno ogni scusa divenne buona per catturare la tua attenzione. Anche un semplice ciaò pronunciato con la tua romantica parlata mi riempiva il cuore d’orgoglio. Quando giocavo a calcio andavo sempre io a recuperare il pallone, passando appositamente vicino al tavolino dove sedevi.

Un giorno poi mi avevi chiesto di darti una mano: mi spiegasti che giù al tuo paese, in Francia, avevi iniziato un corso di italiano: «sai, Matéo, una di quelle cose per noi vechi», mi avevi detto con una risata presto soffocata in una tosse matura e carica di fumo.

Quanto mi era piaciuto studiare insieme a te! Il passato remoto del verbo essere ti mandava in bestia.

«Io fuì.» (ci mettevi sempre un accento in fondo).

«Tu fosti.»

«Egli fu.»

Arrivato a questo punto ti fermavi e mi fissavi con occhi dubbiosi, come quando un cane aspetta il comando del padrone. Poi quella che sarebbe dovuta essere un’affermazione diventava una domanda:

«Noi?»

Ed io pronto a suggerirti:

«Fummo, Jean-Claude.»

«Putaine!» Lo dicevi a mezza voce, con sguardo ossequioso, come se ti trovassi dinanzi ad un linguista di prim’ordine. Prendevi la matita, ringraziavi per la correzione, sorridevi e ripartivamo da capo.

Non trascorremmo tanto tempo insieme, la nostra fu un’amicizia fatta di istanti. Come quando, durante la tua passeggiata del pomeriggio, passavi davanti a casa mia, con moglie e cagnolino al seguito. Non appena mi vedevi spuntare dalla porta la tua grossa mano rugosa si agitava nell’aria per salutarmi. E con quel tuo vocione alla Gerard Depardieu esclamavi: “Ciaò, Matéo!”

Il tempo passò, quel paesino di montagna da magico divenne per me noioso. Ci capitavo raramente, giusto per salutare gli amici di un tempo, ora sempre più lontani dalla mia vita. Più recentemente decisi di trascorrerci una breve vacanza, era l’estate del 2015. Inutile dire che andai subito a cercarti, erano più di dieci anni che non ci vedevamo. Parlai con la vecchina che ti affittava la casa. Oddio, vecchina non è il termine appropriato, anche se il suo nomignolo ne sembrava la conferma: Cecchina, diminutivo di Franceschina. Era in realtà un donnone formidabile, dal viso gentile e con due braccia dotate di una forza inaudita. Quel giorno Cecchina aveva gli occhi commossi e nel silenzio della sua casa mi spiegò che erano già anni che non venivi più da quelle parti. Eri malato, ci vedevi sempre meno e non te la sentivi di guidare la tua Peugeot sgangherata per un viaggio che, sino a qualche tempo prima, era il gioioso preludio alla tua vacanza, come mi avresti raccontato poi. Appresi che tua moglie non c’era più, quella signora di cui non ricordo bene il volto ma so per certo che era bionda e bella, come Brigitte Bardot. Ringraziai Cecchina, la salutai e uscii da casa sua triste e sconsolato.

Poi anche quell’estate passò e tornai a Genova, nella mia monotona vita quotidiana. Ogni tanto ti pensavo. Invecchiato, abbattuto, nella tua casa da qualche parte in Francia. Chissà cosa facevi, come stavi, com’eri. Avevi ancora quel cagnolino? Vivevi da solo o con la tua famiglia? Eri felice?

Fu una sera d’inizio inverno che mi venne un’idea. Mi ricordai di una cartolina che mi avevi spedito tempo prima proprio da casa tua, in Francia. Chiesi a mia mamma di cercarla, di dirmi il nome del paese raffigurato nella fotografia.

Martigues.

Dunque era lì che abitavi, dove mi invitavi sempre e io non c’ero mai venuto. Questa volta però sarebbe andata diversamente, ci sarei venuto eccome. Avrei fatto una gran bella sorpresa al mio zio di Francia.

Più passavano i giorni e più mi convincevo della bontà del mio progetto. Addirittura divenne la scintilla per qualcosa di ancora più grande. Desideroso di lasciarmi alle spalle tutti gli interrogativi di una vita inconcludente, tormentato com’ero dai fantasmi del passato e ansiato dal presente, avvertivo con forza il bisogno di pace, di fare due conti solo, con me stesso e nessun altro. Presi la cartina e iniziai a pianificare il mio girovagare: una volta lasciata Martigues la mia Panda avrebbe proseguito indomita verso Ovest. Sarei andato a Carcassonne, con la sua magica atmosfera medievale, mi sarei poi diretto verso i paesi baschi, alla volta della sorprendente Bilbao. E ancora le Asturie, la Galizia. Tutto in auto, tutto in solitaria. Tutti che mi davano del pazzo, forse perché non sapevano che il vero motore di tutto questo era quanto di più bello mi fosse capitato ad un torneo di bocce tanti anni prima.

Arrivò il giorno della partenza. Mattina presto del 26 dicembre, santo Stefano, quando tutti sono ancora rimbambiti dai fasti del Natale appena trascorso. Confesso che quando suonò la sveglia pure io mi sentii un po’ pazzo. Poi pensai ai tuoi capelli biondi, quasi arancioni, al tuo vocione, a noi due che studiamo italiano… ero già in macchina, già per strada, già da te. Così, eccomi a Martigue. Poco prima della sua uscita autostradale, una volta passata Marsiglia, si intravedono due grossi reattori nucleari. Quel giorno il cielo è grigio come quei reattori, il tempo è tiepido. Parcheggio l’auto all’ingresso della città. Davanti a me il mare, dietro canali con barche ormeggiate sui quali si affacciano bei palazzi variopinti.

Tutto ad un tratto mi vengono in mente i tuoi racconti, quando, sorridendo, mi dicevi che casa tua era come Venezia. Certo, un pochino più piccola e, ovviamente, meno bella. Tu, francese purosangue, sei sempre stato un amante sincero dell’Italia.

Prendo il telefono, compongo il numero che mi ha dato Cecchina. Suona a lungo, non risponde nessuno. Che idiota, penso. E’ Santo Stefano, Cristo, sarai in giro con la tua famiglia, cosa cavolo mi potevo aspettare? Faccio un giro per Martigues con la morte nel cuore, giusto il tempo di vedere una pista da pattinaggio più piccola della cucina di casa mia. Così insulsa, fuori luogo, proprio come la mia idea di venire da te.

Torno in macchina, sono indeciso se rimettermi subito in moto o aspettare ancora un poco. All’improvviso suona il telefono. E’ un numero che non ho in memoria. Un numero francese. Sei tu, Jean-Claude.

«Salut?»

Hai una voce stanca, triste, vecchia.

«Salut, ciao Jean-Claude, sono Matteo, tu te rappelles de moi? »

Momenti di silenzio dall’altra parte. Mi sembra di sentire dei sospiri. Forse sorridi.

«Ah.. Oui, Matéo, come stai? Quanto tempo.. E la tua familia – non hai mai saputo pronunciare la gl - come va?»

Rinfrancato dal fatto che tu sappia ancora un po’ d’italiano, ti rispondo commosso.

«Ciao.. ciao Jean-Claude io sto bene. écoute io sono qui, je suis ici, à Martigues! Se mi dai l’indirizzo ti vengo a salutare!»

Questa volta la pausa è molto più lunga, almeno trenta secondi se non di più. Ad un certo punto inizio seriamente a pensare che tu ti sia sentito male.

«Jean-Claude?»

Rispondi lontano, quasi sottovoce.

«Putaine - E poi più forte e deciso – Putaine! Putaine Matéo. Tu es fou! Sei passò Matéo! Cosa sei venuto a fare? Sono vecchio io»

Lo dici quasi scusandoti, come se ti fossi fatto trovare impreparato al nostro appuntamento.

Strano - penso io - dalla voce non si direbbe, ora che il tono è molto più giovane di quando hai risposto.

«Sono venuto a trovarti, a dirti ciao! Dai dammi l’indirizzo. »

«Oui, bien sûr.»

Come risvegliato da un incantesimo, inizi a parlare in francese strettissimo. Fatico non poco a seguirti, a volte ti devo interrompere e chiederti di ripartire da capo. Faccio finta di aver compreso alla perfezione, in realtà non ho idea di dove mi debba dirigere. Per fortuna, mentre io sono intento a litigare con il navigatore, mi chiami un’altra volta. Ora sei un vulcano di energia, il fatto che il Gps non sia nostro alleato ti fa perdere la pazienza.

«Merde»

Che bello risentire la mia parolaccia preferita!

Poi ti quieti e mi spieghi la strada da fare, dandomi alcuni punti di riferimento. Costeggio il canale, arrivo alla rotonda, poi svolto a sinistra, lì, dove c’è quel bar. Casa tua è dall’altra parte della strada, all’interno di un complesso di condomini popolari, quasi sotto al cavalcavia dell’autostrada che ho appena attraversato. Parcheggio, giro la chiave dell’auto, rimango qualche istante in apnea, immerso nel silenzio ovattato dell’abitacolo. Apro la portiera, attraverso la strada, prima palazzina a destra.

«Matéo! Matéo!»

Il tuo vocione da tabagista mi coglie impreparato, alzo lo sguardo ed infine eccoti, Jean – Claude. Affacciato dal balcone, mi saluti con quella tua manona, i capelli sono sempre di quel colore assurdo, anche se lievemente più spenti. Hai la faccia di chi ancora non ci crede. Suono al portone, il tempo di fare il primo piano correndo e poi ritrovo il tuo sorriso. Ci abbracciamo, ci baciamo. Cavolo se sei invecchiato! Quando però il mio sguardo si butta nel tuo non ci sono dubbi. Dietro quel viso stanco, sotto quel maglione un po’ logoro ci sei proprio te, il mio zio di Francia. Siamo entrambi sconvolti dall’emozione, non riusciamo a parlare più di tanto. Mentre provo a rompere l’impasse annoiandoti con le solite storie del tipo «sai lavoro per una grossa azienda. Sai, vivo a Genova. Sai, ho vissuto in Australia, ecc.» tu, talvolta, smetti di ascoltare, astraendoti da tutto. Guardi un punto fisso nel vuoto, sospiri. Poi, proprio come dopo una boccia sbagliata, cerchi e ottieni i miei occhi, la mia attenzione. Mi guardi con dolcezza e ripeti più volte «Matéo.. sei venuto davvero! ». Come se avessi finalmente mantenuto una promessa fatta tanto tempo prima.

Non restiamo molto insieme, forse un’oretta, forse meno. Sappiamo che i ricordi non devono essere maneggiati con forza ma, tuttalpiù, appena sfiorati.

Riparto per il mio viaggio. Nei giorni che seguono scopro nuove terre e penso a tante cose. Rifletto su quello che sono diventato e su ciò che vorrei essere. Sono sempre solo eppure ci sei anche te. Un pomeriggio, mi trovo a San Sebastian, squilla il cellulare. Compare il tuo numero e nemmeno il tempo di rispondere che sento il tuo vocione allegro dall’altra parte della cornetta. Mi ringrazi ancora per quello che ho fatto, mi chiedi di richiamarti quando tornerò verso casa. Continui a viaggiare con me mentre mi addentro per paesini di pietra nelle Asturie, che al tramonto paiono scolpiti nell’oro. Sei con me sopra a scogliere impervie della Galizia, quando il vento mi sconquassa i capelli ed io rido, felice come non mi capitava da tempo. Il giorno dopo, sono le cinque di una buia mattinata invernale, mi muovo furtivo nella stanza del mio albergo. Il tempo di calzare le scarpe da corsa ed inizio a visitare Santiago de Compostela, dove sono arrivato il giorno prima senza vedere nulla, correndo. E’ un’idea maturata pochi minuti prima, nel calduccio del letto. Ancora oggi, quando guardo le foto di quella corsa improvvisata per le stradine medievali di Santiago, sento ridere il cuore.

Il mio pellegrinaggio si conclude a Porto, e solo perché quello là in fondo è l’Oceano, altrimenti sarei potuto arrivare fino in America. Al ritorno sono con un’amica, insieme visitiamo la bellissima Salamanca, trascorriamo un insolito capodanno a Madrid e girovaghiamo nell’intricato centro gotico di Barcellona. Perdo il portafoglio e poi lo ritrovo grazie ad un altro italiano, il quale mi rintraccia tramite Facebook e quando ricevo il suo messaggio non riesco a trattenermi da emettere un gridolino di gioia. Così tante avventure racchiuse in un’unica, assurda, esperienza.

E poi eccoti ancora lì. Mi hai invitato a passare da casa tua prima di tornare a Genova, non posso proprio dirti di no. Tu che sei un uomo solo, di certo non avvezzo ai fornelli, hai pure cucinato per me. La croccantina surgelata che frigge sulla padella inutilizzata da anni sarà la pietanza più gustosa delle mie feste di Natale. Mandi saluti a tutta la mia “familia”, per la quale mi lasci doni di ogni tipo. Mi riveli che da qualche giorno stai un po’ meglio, i tuoi dolori alla schiena ti hanno concesso una tregua. Racconti alla mia amica cosa eravamo noi due, quanto sei rimasto contento di vedermi spuntare sotto il balcone di casa. Al momento dei saluti scendi giù per abbracciarmi l’ultima volta, accompagnandomi dall’auto. O forse no, rimani a casa perché troppo provato dall’addio. Non ricordo Jean - Claude, sai, ero troppo intento nel guardare quella tua ruga vicino all’occhio. Si muove, sembra scendere leggera. E’ così piccola e lucida che pare quasi una lacrima.

Qualche mese dopo sono in ufficio, dietro ad una scrivania asettica, il sedere sopra una comoda poltrona. E’ uno di quei tanti momenti in cui scorro sconsolato le mail e mi chiedo “Io, precisamente, che cosa ci faccio qui?”.

Vibra il cellulare.

E’ un messaggio di un mio amico, di quelli del Piemonte. C’era anche lui a quel torneo di bocce, quel Ferragosto. Poche, scarne parole per dirmi che tu sei morto Jean - Claude. “Te l’ho detto perché magari tu eri ancora rimasto in rapporti…”

Il nodo che avverto alla gola è talmente forte che per qualche istante mi toglie il respiro, d’altronde allentare la cravatta non serve a niente. Inizio a piangere a dirotto, ho bisogno di condividere il mio dolore. Scrivo un messaggio a mia mamma e lei mi risponde subito, dicendomi che le dispiace tanto, proprio ora che ci eravamo ritrovati. Io continuo a pensarti, non riesco e non voglio smettere. Sei sempre nella mia testa, ci rimani tutto il giorno, come quando, poco dopo, parlo con il mio capo di chissà quale pratica e all’improvviso i miei occhi si gonfiano, le mani mi tremano. Gli chiedo di scusarmi, ho appena appreso una brutta, bruttissima notizia. “E’ mancato un mio amico”, spiego con un filo di voce.

Rimani con me anche la sera, quando pure avrei un appuntamento importante. Insieme a mio fratello siamo finalmente riusciti a fondare la tanto agognata squadra di calcio che sognavamo da tempo. Io ne sono il presidente, tocca a me fare il primo discorso allo spogliatoio.

Vi chiedo scusa ragazzi, io però stasera non sono con voi, non sono in questo spogliatoio e non sarò nemmeno su quel campo. Sono con te, a quel torneo di tanti anni prima, mentre continui a sbagliare boccia su boccia. «Merde!» Sono sull’uscio di casa, a fare ciao con la mia manina da bimbo mentre ti allontani, la tua bella moglie appoggiata sulla tua spalla.

«Io fuì»

«Tu fosti»

«Egli fu»

«Noi?»

«Fummo!»



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