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È vita




La prima volta Madrid era stata un’improvvisazione, un pullman preso la mattina alle 6, io non avevo nemmeno vent’anni. Ci avevo trascorso una giornata con la mia ragazza, sotto un cielo azzurro con cui tempo dopo avrei ben presto stretto amicizia. Appena usciti dalla metropolitana ricordo gli zampilli della fontana di Plaza de Cibeles, la Puerta de Alcalá poco lontano e il Parque del Retiro, con le barchette nel lago e le aiuole piene di colori. “Un giorno vorrei vivere in questa città” avevo pensato. “ Svegliarmi la mattina, quando c’è il sole, e venire qui, a respirare l’odore degli alberi”.

A Madrid sono tornato il pomeriggio del 31 dicembre 2015, la città era apparsa in fondo a un’autostrada lunga e diritta, e i grattacieli di Plaza Castilla erano avvolti da una sottile foschia. Qualche anno dopo avrei rivisto l’ombra degli stessi palazzi ogni pomeriggio, per un mese. Nel 2015 Madrid era stata la tappa di un viaggio concepito in una notte, divenuto negli anni a seguire un dolce rifugio in cui rintanarmi quando voglio pensare a qualcosa di bello. Avevo fatto una sorpresa al mio zio di Francia, che di lì a poco avrei salutato per l’ultima volta, avevo guidato per quasi duemila chilometri da solo, a bordo di una Panda bianca, e mentre Paesi Baschi, Asturie e Galizia scorrevano veloci dietro al finestrino, io pensavo a che fare della mia vita, forse è stato durante quel viaggio che ho iniziato il cammino. Due sere prima del 31 ero a Santiago de Compostela, e un signore che si chiamava Pablo mi offrì un bicchiere di champagne e una porzione di capesante. “Perché tu stasera sei mio ospite” mi disse con un sorriso. Poi a Porto mi ero ritrovato con Serena, una mia amica, appuntamento su una strada in salita, mi pare ci fosse un muro grigio e una scritta blu con delle piastrelle bianche. L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo. O almeno credo. Su Facebook avevo messo questa didascalia sotto all’immancabile selfie. Giunti a Madrid avevamo lasciato la macchina in un garage vicino allo stadio Bernabeu, nei pressi di una gelateria in cui sono entrato poche settimane fa per fare un colloquio. Poi metropolitana, stazione Gran Via, dopo un giro veloce per il centro ci eravamo infilati dentro a un Mc Donald’s, stanchi del viaggio e forse con la voglia di mangiare qualcosa, non ricordo. Ricordo però che appoggiati a un tavolino c’erano due vecchietti, uno aveva degli occhiali piccoli e la bocca sottile, l’espressione sospesa tra il pignolo e il sarcastico, l’altro aveva un cappello scuro e una borsa a tracolla, la faccia gioviale e il tono della voce sempre irreverente. Non credo di aver mai più visto nient’altro che si avvicinasse così tanto all’idea di amicizia. Discutevano su tutto, dal calcio alla politica, eppure quei due si volevano bene, e tra le mille differenze li accomunava una gran voglia di scherzare, come quando uno si era avvicinato a Serena e aveva liquidato il mio pessimo spagnolo con una boccaccia. Mi piacerebbe incontrarli un’altra volta, sedermi al tavolino con loro e discutere di corride e delle prossime elezioni, ora che ho imparato che lo spagnolo non è solo una s da mettere in fondo.

La mia terza volta a Madrid avevo pure provato a cercarli, in fondo erano stati proprio loro a dirlo:

“Venite a trovarci quando volete, siamo sempre qui” E poi: “Bueno, fino a quando siamo vivi!”


Niente da fare, non li avevo trovati, e al loro tavolino c’era una comitiva di turisti del Nord Europa, guiris, come li chiamano qui. Madrid mi aveva folgorato come sempre, era ottobre e faceva caldo, e nel cielo c’era il solito azzurro disegnato. La sera, insieme al mio amico Giuseppe, avevo cenato con una collega spagnola, Patricia, in una piazza a pochi metri da Puerta del Sol. Ho rivisto Patricia una decina di giorni fa, a pranzo. “Sai che quella volta che abbiamo cenato con Giuseppe eravamo sotto casa tua?” No, cavolo, non lo sapevo. Quando eravamo dovuti partire mi era sembrato che fosse maledettamente troppo presto per farlo, volevo stare di più, vedere cosa si prova a svegliarsi a Madrid quando ci si vive. Ancora una volta avevo sentito il profumo di questa città senza poterne gustare il sapore, e dopo l’altra sera so che c’è qualcuno, proprio in questa città, che sa bene di cosa sto parlando.

Sabato 23 febbraio 2019 è stata una bella giornata di sole. Nel pomeriggio ho preso chitarra e block-notes, destinazione Retiro, a volte dietro alla bellezza di un sogno c’è tanta semplicità. Dopo aver trascorso qualche ora all’ombra di un albero ho pensato proprio a questo, al desiderio finalmente realizzato a più di dieci anni da quando l’ho espresso. Per tornare a casa ho imboccato la Gran Via, che da Plaza de Cibeles sale su facendo un’ansa ampia e profonda. Proprio qualche minuto prima mi aveva mandato un messaggio Serena, e mentre le rispondevo mi sono trovato davanti a quel Mac di un 31 dicembre di qualche anno fa. Sul piazzale davanti al locale stanno facendo dei lavori, la stazione della metro è chiusa e per fare la foto all’ingresso mi sono scontrato con dei passanti, alcuni mi hanno pure insultato. Poi un’occhiata veloce al tavolino, lo faccio sempre quando ci passo, nessuna traccia dei due, però questa volta c’erano cinque, forse sei teste calve e con i pochi capelli rimasti di un bianco candido. Sei vecchietti assorti nelle loro chiacchiere da bar, a vivere con serenità ciò che gli rimane della vita. Ho sorriso, e per alcuni istanti sono rimasto incantato a guardarli da dietro alla vetrata.

Il giorno dopo splende di nuovo il sole, questa volta sono io a essere seduto a un tavolino del Parque de La Pedriza, a quaranta minuti dalla città dove ora vivo. Vicino a me c’è un signore conosciuto per caso durante una camminata in montagna, si chiama Pablo, ha cinquant’anni o poco più, al braccio porta con orgoglio i colori della repubblica spagnola, e ogni volta che ci vado a camminare si discute di storia, calcio e politica. Si sta bene. Pablo è intento a parlare con il suo inglese un po’ sgangherato ma comunque efficace – le tre birre a stomaco vuoto aiutano - con Harry, australiano di Brisbane e mio attuale coinquilino. Mai avrei pensato di risentire l’accento downunder a Madrid. Vicino a loro un altro mio amico, Alessio, che fuma beato una sigaretta. Io intanto guardo distrattamente i profili innevati delle montagne sopra di noi, ce n’è una che si chiama Maliciosa, e con Pablo siamo d’accordo che ci andremo presto, appena si scioglie la neve. Il cielo, manco a dirlo, è azzurro. E in quel preciso momento sento la felicità scorrere dentro di me, le parole di Pablo mi suonano sorde nella testa, sorrido di nuovo, e intanto vago nel mio mondo, mi viene in mente ciò che ho chiesto pochi giorni fa a chi ha deciso di seguirmi in quest’avventura, all’amico di una vita.

“Allora Samuel? Un primo bilancio?”

Faccio la domanda e intanto penso al mio spagnolo che migliora, alle tante persone che sto conoscendo con le loro storie da raccontare, al mio colloquio in gelateria, al fatto che poi abbia rifiutato il lavoro. Alla presentazione di un libro la settimana scorsa, quando mi sono alzato in piedi e davanti a una platea incuriosita ho esordito con una voce da prima tremolante, poi via via più sicura: Buonasera, io mi chiamo Matteo Mangili e mi piacerebbe definirmi un aspirante scrittore.

Faccio la domanda e sento il ticchettio della tastiera, che ultimamente mi accompagna fino alle due, a volte persino le tre di notte, perché che senso ha dire a tutti che si vuole fare qualcosa se poi non ci si prova davvero. Penso pure a quel Pablo di Santiago, chissà se mai lo incrocerò quando a giugno dovrei arrivare di nuovo dalle sue parti, questa volta senza Panda bianca ma solo con le mie gambe, che spero riusciranno a sostenere un cammino di 800 e oltre chilometri.

Penso a quando ho visto Madrid per la prima volta, a quando ci sono tornato, penso e continuo a pensare, come faccio sempre del resto. Poi per fortuna che Samuel mi dà la risposta migliore di tutte:

“Sono davvero molto contento. Qui, a Madrid, io vivo.



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