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  • Immagine del redattoreAlitaki

D'ä mæ riva


Quando vivevo in Australia ero solito fissare un punto preciso nell’orizzonte.


Lo facevo dai gradoni sopra la spiaggia di Cottesloe, in quei tramonti infuocati dell’Oceano Indiano che non deludono mai. Pensavo che al di là di quel tripudio di luce, di quel sole che si scioglieva indolente, c’era la mia città. Spesso, nel farlo, scendevano le lacrime, ed è stato grazie a quel sentire malinconico che ho imparato a riconoscere l’amore per Genova.

Ho provato a cercarla anche qui.

Chapadmalal, provincia di Buenos Aires. Villette con il giardino e stradine sterrate a due passi dall’oceano. Profumo, la sera, di erba tagliata, il frinire dei grilli come unica bussola in un buio altrimenti totale e camion arroganti che sfrecciano sulla statale. Oltre la strada, che sembra una sorta di Aurelia argentina, sei enormi alberghi. Sembrano le nostre vecchie colonie estive: circondati da giardini non troppo curati, hanno gli infissi in legno, con le ultime strisciate di pennello ancora visibili. Al piano terra ci sono saloni ariosi, con ampie vetrate. Oggi come allora sono adibiti a mensa e mentre si mangia arriva, intatto, l'odore del mare. Il pavimento è fatto da una graniglia bianco-nera, calpestato in continuazione da innumerevoli passi sciabattanti.

Gli alberghi furono voluti fortemente da Evita Peron per il “turismo del popolo”, negli anni quaranta dell’ultimo secolo. Andati ben presto in malora, la maggior parte sono stati recentemente rimessi a nuovo. Negli ultimi due la ristrutturazione è ancora in atto, e la sera sento odore di asado dai piani alti dove lavorano - e, forse, pure vivono - i carpentieri.

L’occasione per celebrare la nuova vita degli edifici sono i giochi che portano il nome della donna d’Argentina più famosa. Si tratta di una sorta di universiadi, e ogni giorno nello spiaggione sottostante è un susseguirsi di schiacciate oltre la rete e schemi chiamati con l’indice della mano. Le ragazzine sfoggiano con orgoglio e un pizzico di malizia costumi a perizoma. I maschiacci, dai fisici asciutti e la chioma platinata, non sono ancora sfiorati dall’idea di guardarle. Preferiscono indugiare su una palla che rotola, esibendosi, tra una pausa e l’altra, in spettacolari rovesciate acrobatiche. Più in là, dove le onde si fanno cavalloni, spuntano cavalieri anarchici. Sono i surfisti dalla muta scura, l’espressione sognatrice e capelli perennemente bagnati.


Ieri, camminando sul bagnasciuga, ho immaginato dove potesse essere Genova. Non al centro del mare, come in Australia, perché mi trovo più a sud. Ma pure a guardare in obliquo, il gioco non ha funzionato. Forse distratto dalla musica sparata a tutto volume, o forse incantato dai teli da mare, dispiegati a ogni finestra degli alberghi di Evita.

Chapadmalal è la sosta, credo l’ultima, di un viaggio che non si vuole fermare. Quando lo faccio, avverto inesorabile l’ansia di chi, ormai prossimo alla meta, vuole assicurarsi di non dimenticarsi nulla lungo la strada. E allora via di calcoli nella testa, fatti di date da rispettare. In Bolivia entro il 2, massimo 5 di aprile. Dal lago Titicaca, sperando che nel frattempo il Perù si sia riappacificato, non voglio esserci dopo il 15, e così via.

In questi giorni avrei voluto (o forse dovuto, è sempre difficile intuirne il confine) rimettere le mani sul libro che parla di questo viaggio. La prima parte l’ho scritta con foga e perseveranza ormai due mesi fa, ma non parliamo di tempo. Se penso che quando tornerò sarò stato via mezzo anno, sento uno strano capogiro alla testa.

Meglio, allora, mettere su un altro episodio di "Marco dagli Appennini alle Ande". Un cartone giapponese degli anni ‘70, suggerimento prezioso di un amico scrittore. Ieri quel bambino testardo, arrabbiato con il mondo degli adulti perché non lo capisce, si è finalmente lasciato alle spalle Genova, la Lanterna e i tetti d’ardesia. Destinazione: il Latinoamerica.

Conoscendo già il finale, ho pensato che sarebbe bello farlo coincidere con l’epilogo di questo viaggio.

Così niente Genova, quando mi fermo a guardare l’oceano. Sarà che qui il sole ce l’ho alle spalle, ormai scomparso nell'entroterra. Per vederlo bagnarsi tra le onde dovrei aspettare il giorno dopo, quando però l’alba mi restituisce un giorno di nuvole e cielo ostruito.

Ieri sera ho letto e riletto i testi dell’album Creuza de Ma. Tra avventure sessuali agognate da marinai nel mezzo della tempesta, genovesi diventati Pascià ottomani e corde marce d’acqua e di sale, forse è la volta buona che un po’ di dialetto l’imparo. La mia canzone preferita rimane quella di cui conoscevo già testo e melodia. Si chiama D'ä mæ riva: racconta il dolcissimo, straziante congedo di un marinaio dalla sua terra. La moglie che, dalla riva, lo saluta sventolando un fazzoletto.

Ma, l’ho già detto, questa sera non c’è spazio per la nostalgia. Aspetto il giorno dopo, e lei si presenta puntuale e avvolgente. Ha la forma di un pomeriggio di luglio. Una polvere d’argento che prende il largo nel blu profondo del mar Ligure. E un’anima buona, ma che sapeva essere pure carogna, a guardarmi da lassù, da un paesino dal nome altrettanto tagliente, come solo la nostra terra sa essere.


11 marzo 2023, ultimo giorno di sosta a Chapadmalal. Domani si parte verso la capitale. Quella Buenos Aires in cui Marco ed io, viaggiatori imperfetti, ci ritroveremo uniti nella stessa affannosa e innamorata ricerca.

Perché Genova è come una madre.


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