Alitaki
Bajo la noche estrellada

A Medellin le stelle non stanno nel cielo.
Le trovi in fondo alla strada, arrampicate sui monti, e anziché indicare la rotta dicono dove non devi andare. Il Latinoamerica e i suoi confini invisibili, assai più impenetrabili di quelli convenzionali. A girare l’angolo bisogna fare attenzione, si potrebbe finire nel territorio di un gruppo rivale. A volte esistono regole tacite, altre due piedi oltre il confine segnano l’inizio di una guerra, l’ennesima. Non ci arriva lo stato in questa galassia, e quando lo fa è una nebulosa lontana, corrotta. In fondo ogni stella rappresenta un essere al mondo. Dietro la luce di una baracca c’è un’esistenza precaria, tra sporcizia e violenza, entrambe date per scontate fin dalla nascita. Ma le stelle si sa, brillano e non riesci a non guardarle. Così ti accorgi che le vite, di quelle ancora vergini celate nello sguardo dei ragazzini, le trovi solo nel barrio. Allora ci vuoi andare in quelle strade proibite, vorresti parlarci con quella gente e capire il motivo dei loro sorrisi larghi, spontanei. Felicità che nasce dal nulla, se vista e non guardata da occhi approssimativi e giudicatori.
Le stelle brillano ancora prima che venga il buio, basta avvicinarsi. Noi le vediamo rincorrersi su un campo di calcio. Yenni l’ha costruito dove prima c’era una gigantesca discarica, e mica si vuole fermare. Ci mostra i lavori per ampliare il salon, come la chiama lei. Al primo piano i ragazzi del barrio verranno a studiare inglese, dopo la scuola. Ora sono fuori a sgambettare sul campo, o cancha, come si dice da questa parte di mondo. Yenni lo sa: il gioco più bello del mondo aiuta eccome a essere felici. Per Natale vuole regalare a ogni ragazzo un paio di scarpini. Chissà che faccia farà Anderson, dodici anni e una furia su ogni pallone. Ha provato in tutti i modi a riequilibrare una partita nata male per noi. Ma in fondo il risultato importa poco, o almeno così la pensa Dieguito. Corpicino esile, uno sguardo troppo tenero per fingersi adulto. “Nel calcio, così come nella vita, bisogna sapere perdere”, mi sussurra all’orecchio dopo l’ennesimo contropiede subito.
Le stelle di Medellin le vedi nel buio assoluto, quando chiudi gli occhi e provi a dormire. Città complicata, dal sapore amaro con punte di dolce. I turisti hanno iniziato a visitare Medellin per una serie tv, ma il nome di Pablo Escobar è pronunciato ancora con timore. La guida che ci accompagna per il centro lo cita solo con le iniziali, non vuole avere problemi. Medellin è la sua metropolitana. I paisa – così si chiama la gente del posto – le vogliono bene come a una figlia. Concepita in mezzo alle bombe, le sparatorie e i sequestri della guerriglia. Volontà ferrea di un nuovo inizio che germoglia in maniera disordinata, in mezzo a un’erba infestante difficile da estirpare.
Lasciamo questa città complicata la sera. Le stelle, manco a dirlo, scorrono a lungo dietro al finestrino del minibus. Poi solo tornanti e buche a non finire. Qualsiasi tipo di sonno è impossibile. La notte è dura a morire, e quando arriviamo a Salento di stelle non ce ne sono più, né sui monti né in cielo. Le quattro della mattina sono un mare senza naviganti. Troppo presto per celebrare il nuovo giorno e tardi per riposare. Aspettiamo pazienti l’apertura di un locale, veniamo ricompensati dal profumo inconfondibile di chi sforna il primo pane della giornata. Caffé e cornetto, che se non fosse di un giorno prima quasi sembrerebbe di stare in Italia. Seduti al tavolino assistiamo alla sfilata degli habitué. La maggior parte dei clienti, quando è il loro turno, ha un modo curioso di rivolgersi alla commessa. “Me regalas un panino?”.
Niente stelle nel cielo a Salento. Il tempo è grigio, spesso piove e per cercare il sole bisogna alzarsi insieme a lui. Poi lui se ne va, pigro e viziato, ma ogni tanto getta un po’ di luce, e quando succede avvengono certi miracoli da raccontare. Al parco del Cocora i prati diventano di un verde quasi irreale, e sul cielo azzurro si stagliano palme esili e alte, come le vite degli artisti. Vedi mucche che ruminano indisturbate, avverti la presenza di un ordine grande, sopra le cose, e ti senti scosso da una felicità potente e inaspettata. La natura è commovente in Colombia, seduce con il profumo del bosco dopo un violento acquazzone. E se si cade con la motocicletta su una strada fangosa, non importa poi tanto. Il tempo di tirarsi su, togliersi un po’ di sporco di dosso e rimettersi l’auricolare all’orecchio. Dov’eri rimasto, Manu? Ah sì, che la Vida es una Tombola.
E allora giochiamo, con un cielo striato di trame dorate dal belvedere di Filandia. Ma perché qui i paesi hanno i nomi di luoghi lontani? Forse per fare viaggiare con la mente la gente del posto. Di stelle nessuna traccia, ma di anime luminose quante ne vuoi. Una si chiama Paola, ed è da qualche anno che vorrebbe conoscere chi scrive. Merito di un’idea come un’altra avuta in tempi di Covid, quando avevamo un gran bisogno di raccontarcela. Paola è di Cali e ci aspetta all’ennesimo terminal del bus. Ci porta in alto, dove l’aria si fa fredda e la città appare piccola e sparpagliata su una grande pianura. Poi ci accompagna lungo la passeggiata dal fiume, ragazzini ascoltano musica a un volume esagerato, coppie si tengono per mano e parcheggiatori abusivi litigano tra loro. Cali mi ricorda quelle persone che se ne stanno zitte, e noi a pensare che non abbiano niente di particolare. Non ha l’evanescenza degli artisti, o la versatilità dei geni. Ma Cali bisogna accettarla, e viverla tramite le storie di chi ci è nato e cresciuto. Come Beto, cultore della danza in tutte le sue forme e che racconta di quella volta in cui hanno sparato in una discoteca. I mitra cercavano un boss del cartello, trovarono i copri di ventuno innocenti. Beto per sua fortuna riuscì a scappare, e mentre lo dice ha gli occhi grati e ancora spaventati. Suo figlio, Juan, ci spiega i quartieri dove non andare, e ci ricorda ancora una volta quanto sia importante non dare papaya. Non ostentare ricchezza, benessere, e il consiglio finisce quasi per essere una necessità. Perché basta girare una via del centro e la gente taglia i sacchetti dell’immondizia per cercare del cibo. A San Antonio, quartiere dalle case basse e colorate, conosciamo due ragazzi argentini. Spesso i momenti migliori avvengono al tramonto, con quella luce che rende tutto più bello e porta sempre con sé un po’ di magia. I due vendono un dolce per pochi spiccioli e lui, che si chiama Sebastian ma vuole essere chiamato il negro, mi fa bere dal suo mate. Sapore amaro e buono, voglia di partire per nuove mete. Non prima, però, di salutare per bene chi ci ha ospitato. Cali, tappa quasi obbligata del nostro lungo discendere, diventa motivo di nostalgia. Di quelle sottili, anticipate da un’allegria spensierata, e che entrano dalla porta senza chiedere il permesso. L’ultimo giorno lo trascorriamo con Paola, più emozionata di noi a salire sull’ovovia che passa sopra al barrio. Altro confine impenetrabile, rifugio recondito di vite difficili, roseti nascosti nel retro dell baracche. Un fiume che forse è pure una fogna attraversa il quartiere, e a un certo punto diventa pure cascata. Una delle stazioni dell’ovovia ha un nome bellissimo: Brisas de Mayo. A quell’ora, saranno le cinque di pomeriggio, il cielo di Cali è terso. Denso come la tristezza che ci coglie prima di partire. E’ tempo dei saluti, Colombia.
Ipiales è una brutta, sporca citta di confine. Giunti alla frontiera, incappiamo in una pioggerellina sottile e insignificante. Quando ci strasciniamo su un ponte con i nostri zainoni sulle spalle, siamo già con lo sguardo rivolto verso un nuovo paese.
É tardo pomeriggio: a breve a Medellin, ma pure a Cali, e in qualsiasi altro barrio della Colombia, si riaccenderanno le stelle. Loro, per brillare, non hanno bisogno del tempo buono. Quando si spengono le porti dentro di te. Come i sorrisi delle persone care, i dolori per le improvvise mancanze e gli strazi degli amori non corrisposti.
Che gran da fare hanno le donne e gli uomini che vivono su quelle stelle. Tutti protagonisti, con la loro luce che si accende sui monti a reclamare un posto nel mondo. A gridare in maniera costante e silenziosa un futuro diverso. E tutti, a loro modo, poeti. Di versi intensi, sentiti, a volte pure violenti.
Di versos escritos, bajo la noche estrellada.