Alitaki
Auguri Roccia!

Subito dopo che te ne sei andato, ho iniziato a scrivere su un foglio bianco. Il nome del file è “Per ricordarti, Bertin”. Perché tra le principali paure c’è che il tempo possa scalfire qualcosa. Il modo in cui setacciavi il pesto per controllare che non ci fosse formaggio, o lo sguardo accigliato mentre chiudevi la bottega, ad esempio. Così ho iniziato a fare una sorta di elenco, che continuo ad aggiornare ogni volta che mi viene in mente qualcosa. Ciò che non sapevo è che in queste settimane sarebbe successo l’opposto. Come barbagli di luce che brillano in un mare di sole, sono affiorati tantissimi momenti con te e di te. E ogni volta che mi vieni in mente sei sempre più bello, meno sofferente e più giovane, anche se io giovane davvero non ti ho visto e pensa che sto scrivendo un libro anche per immaginarti come fossi a quei tempi.
Oggi mi sono svegliato di buonumore, pensandoti in bottega. Perché oggi è un giorno come tanti, in cui tu saresti sicuramente andato a lavorare. Non avresti avuto il tempo per goderti una giornata libera, anche se sono sicuro che andando verso la macchina, prima di metterti alla guida, avresti visto pure te questo cielo di un azzurro micidiale. E già, perché l’ho visto pure io, che con te condivido questa cosa buffa e divertente del daltonismo. Ti dicevo che oggi ero allegro, venendo da te. Ho cantato a squarciagola una canzone di Vasco mentre ero sullo scooter, e poi ho fatto un pezzo di strada col treno, dove ho letto un capitolo di Moby Dick dalla bellezza sconvolgente. Sovrappensiero sono arrivato a Brignole e quando all’altezza di via San Vincenzo mi scappava da fare la pipì ho pensato: poco male, la faccio da lui in bottega. In quel bagno in fondo a un corridoio lungo e stretto, in cui bisognava fare lo slalom tra travi, listelli e vecchi mobili. È stato un attimo, breve, ma ci ho creduto davvero. E quando ho capito che tu non ci saresti stato non me n’è fregato niente, mi sono comunque immaginato la scena. Io ti sarei saltato addosso, abbracciandoti e tirandoti le orecchie, magari pure passandoti una mano gelata sulla testa, e tu avresti gridato chiedendo pietà: eh no, che ho freddo! Così ti avrei finalmente lasciato stare, magari dandoti ancora qualche buffetto, perché dopotutto oggi è il tuo compleanno. Tu mi avresti chiesto se mi andava una spuma, in quel bar poco lontano e io... belin se ci sarei venuto! Così ti avrei dato il tempo per la tua dolce rivincita, che sarebbe stata quella di dirmi che sono una schiena dritta, e che è bella la vita del Michelasso. “Senti un po’” mi avresti poi chiesto con il tuo sorriso beffardo e la voce che da roca si fa chiara e penetrante “Ma quand’è che ti decidi a mettere un po’ la testa a posto?”. Allora io me la sarei cavata con qualche battuta, per poi raccontarti che cosa avevo fatto sino a quel momento della giornata. Quando ti avrei detto di Moby Dick tu saresti stato certamente preparato sull’argomento, raccontandomi per filo e per segno di qualche film dei tuoi, quelli che danno il pomeriggio con dei “grandi artisti”. E mentre saremmo ritornati indietro ti avrei detto “No dai, Nanni, non tornare in bottega! Vieni a farti un giro con me nei vicoli”. Tu avresti scosso la testa, dicendomi che avevi tanto di quel lavoro da fare che non se ne parlava nemmeno. Ma io avrei insistito senza arretrare di un millimetro, e ti avrei convinto. Così finalmente avremmo fatto ciò che forse è successo solo una volta. Un giro per la tua Genova, io e te. Ti avrei lasciato carta bianca, non importa da che salita ci saremmo inerpicati, né da quale piazza saremmo sbucati. Avresti deciso tutto tu, e io in ogni caso ti avrei tempestato di domande, chiedendoti qualcosa di te e la Pina, dei posti dove eravate nati e cresciuti. In silenzio avrei cercato di immaginarmi le botteghe dei tuoi amici, i negozi che non ci sono più. Magari avrei preso pure un po’ di coraggio e ti avrei letto qualche passaggio del mio libro, ovviamente ambientato per buona parte tra i caruggi. E lo so, dopo non molto mi avresti chiesto se per favore ora ti potevo lasciare, avevi davvero molto da fare. Ma anche questa volta no, non l’avrei fatto: ci aspettava un panino dal gran ristoro. E sono sicuro che tra un salame al canguro e uno allo struzzo ti saresti incuriosito e avresti sorriso. “Dì, Matte, hai visto?” Poi saremmo persino saliti su una barca.
“Dai Nanni, vediamo Genova dal mare e con la neve!” Ti avrei detto per convincerti. E se mai ci fossi riuscito non credo che ti saresti comunque messo sulla prua come ho fatto io. Tuttalpiù saresti rimasto sottocoperta, a guardare in silenzio e con occhi innamorati la tua città, bellissima, che ti scivolava davanti. E a scrutare le montagne innevate ti saresti sentito intimorito e avresti esclamato: belin che freddo!
Non ti ho trovato dalla bottega, la tua, perché la porta era chiusa. E scusami se proprio lì davanti non ce l’ho fatta e mi sono messo a piangere per qualche minuto, con la gente che passando si sarà chiesta: ma chissà perché questo singhiozza davanti a un portone di legno scrostato e ricoperto di scritte. Non ti ho trovato ma questo non vuole dire che non sei stato con me, oggi, quando ho fatto questo giro per Genova. Ti ho pensato in ogni istante, e in tanti momenti ho avvertito la tua presenza, come spesso mi accade in questi giorni. Come mi succede pure ora, mentre ticchetto sulla tastiera, alzo lo sguardo e vedo la nostra fotografia sopra al computer. A proposito, sei il miglior motivatore del mondo. Mi basta guardarti, con quello sguardo che un po’ ride e un po’ si dispera per quello sciagurato di tuo nipote, e scrivo che è un piacere.
Io ti sento, non sempre, ma spesso. So che sei da qualche parte e che stai bene. Ti sento, persino ti vedo ogni qualvolta la Lanterna mi fa l’occhiolino. Quando torno a casa, la sera, mi fermo dalla piazza di Crevari. Guardo Genova, e intanto aspetto che il fascio di luce giri dalla mia parte. Poi sorrido e vado via.
Ho pensato che questa sera, quando finalmente ti saresti goduto la tua festa, ti avrei regalato una camicia, di quelle di marca che piacevano a te. Perché essere artigiano vuole dire badare alla sostanza ma senza rinunciare allo stile. E mentre avresti scartato il pacchetto, dopo esserti divorato una fetta di Sacripantina, io, seduto sul divano, avrei cercato il tuo sguardo. Con gli occhi, senza farmi vedere dagli altri, ti avrei detto: auguri, roccia!