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  • Immagine del redattoreAlitaki

Rui

Finalmente il gran giorno arrivò, e quel giorno Silves brillava. Aveva piovuto fino a notte fonda, e ora un sole caldo e accecante si stagliava nel cielo. Rui uscì senza chiudere la porta, voleva fumare. Portò la sigaretta alla bocca e si mise a guardare le mattonelle della piazza sotto al municipio. Erano grigie, bianche e nere. Si ricordava ancora quando erano state messe al posto della ghiaia, tra i suoi amici era diventato il più bravo a saltare tra un quadrato e l'altro.

"Anche oggi con quel cappello?"

Una voce lo riprese da dietro. La moglie, due riccioli biondi su un viso tondo e perfetto, conservava intatto il fascino del primo giorno. Si erano conosciuti a Parigi, Rui tirava in alto e in basso la manovella di un ascensore in un albergo, come aveva fatto per ben diciott'anni. Non rispose, istintivamente si portò la mano al cappello, un bel basco di pelle marrone, e se lo sistemò di traverso, come piaceva a lui. Dal salone delle feste del municipio riecheggiavano grida festose: viva gli sposi! Con la sigaretta ancora in bocca Rui provò a sbirciare dentro, a cercare quel sorriso triste come il suo, il sorriso della persona più importante della sua vita, suo fratello. Non lo trovó.

"Internet?"

Un signore mi si avvicina, è quasi mezzanotte e Silves è deserta. Sono seduto sopra un muretto lungo il fiume.

"No te entiendo" gli dico e torno a scrivere al cellulare.

"Internet!"insiste lui.

Lo guardo in volto, prima non l'avevo fatto. La luce gialla dei lampioni mi restituisce due occhi neri, profondi. Labbra rigate da una sottile linea rossa di arsura. Braccia piccole, sottili, attaccate senza un senso preciso a un corpo robusto e snello. Sul dorso della mano, tra pollice e indice, un tatuaggio. O meglio una scritta, in corsivo.

"Perché hai bisogno di internet?" Gli chiedo quando mi accorgo che non c'è nessuna rete wifi nei paraggi, come invece credeva lui.

La ascoltava sempre con suo fratello, quella canzone. Vivevano in una topaia del quartiere Latino e lui quando tornava dal turno di notte faceva scorrere la testina sul disco, un leggero fruscio e poi iniziava

"Moi je traîne dans le désert depuis plus de vingt-huit jours"

Il fratello sbuffava, ancora intontito dal sonno. Poi pigramente stendeva un braccio, e sbadigliava. Rui, seduto su uno sgabello nell'altro angolo della stanza, lo guardava e sorrideva. Gli piaceva svegliarlo così.

"Mi dispiace non funziona internet" gli dico. Ho sonno e vorrei andare a casa ma non mi alzo, almeno non ancora. Ora lui ha la faccia arrabbiata, quasi cattiva. È un attimo, perché poi la smorfia si trasforma in tristezza. Si mette a fissare lo schermo spento del cellulare.

"Di tutta la mia vita mi è rimasto solo questo, un cellulare"

Sorride amaro, sospira. E improvvisamente si mette a piangere. Singhiozza, disperato, senza ritegno. Non si asciuga il volto né mi chiede un fazzoletto. Piange, e continua a parlare un po' in francese, un po' in portoghese. Qualcuno dietro di noi passa con una bici, la sta trascinando a mano. Rallenta, forse si vorrebbe fermare. Poi cambia idea e se ne va.

La moglie lo lasciò in un giorno di pioggia sottile, lui era andato a pescare con gli amici giù al mare, una canna lunga decina di metri che si buttava in fondo a una scogliera di una roccia color ocre. Non aveva preso niente, come sempre. Trovò un biglietto sul tavolo con una sola parola, scritta in corsivo, un bel corsivo elegante.

Adieu

Rui strinse il biglietto nella mano, così forte che le unghie si conficcarono nella pelle. Si mise il suo basco di pelle marrone, e senza giacca iniziò a girare senza una meta, su e giù per le strade in salita di Silves.

"Sono un uomo buono io, sai? Chiedilo alla gente di qui, chiedilo pure".

Il signore si è seduto vicino a me, non piange più.

"Io mi chiamo Rui, vedi? Ce l'ho scritto qui".

Mi mostra il tatuaggio sulla mano.

"Io avevo tanti amici sai? Ed ero pieno di soldi, ahh che belle serate che abbiamo passato". Sospira, ora ha lo sguardo più lucido.

"E adesso ho solo un cellulare".

Il fratello di Rui se ne andò qualche tempo dopo, stufo di vederlo drogato o ubriaco, a seconda delle serate. Rui quando lo scoprì prese tanta di quella droga che restò un giorno intero sdraiato su una panchina, in quella piazza sotto al municipio. Qualcuno ogni tanto gli chiedeva se stesse bene, se voleva che chiamassero un'ambulanza. Allora lui per un attimo tornava in sé, e gli occhi riprendevano vita. Si sedeva sulla panchina e con la poca forza che aveva indicava col braccio il palazzo del comune.

"Sto aspettando mio fratello, tra poco uscirà". E con un mezzo sorriso aggiungeva:

"Oggi è il suo matrimonio".

"Te la faccio ascoltare io la canzone"

Dico a Rui quando capisco che Internet gli serviva solo per quello. Quando parte la musica lui tiene il ritmo con la testa, socchiude gli occhi.

"Metti quest'altra, è di mio fratello, lui fa il rapper, sai?"

"va bene".

Poi gli dico che è tardi, devo andare a dormire. Rui non batte ciglio, anzi mi mi prende in giro per essermi scelto una sistemazione così lontano dal centro.

"La prossima volta chiedi a me, ti aiuto io. Perché io sono un uomo buono lo sai? E qui in paese mi conoscono tutti. Sul serio, chiedi di Rui, senti cosa ti dicono."

Mi alzo, gli stringo la mano e vorrei abbracciarlo. Ma Rui mi ha già dato le spalle, percorre un vicolo in salita, con la mano si tocca il cappello. Sento che respira forte, come fanno i bambini quando hanno ancora un rigurgito di pianto rappreso.

Il giorno dopo c'è il sole a Silves. Appoggiato alla balconata del municipio guardo la piazza del paese. Ci sono le mattonelle bianche, grigie e nere. Brillano. Sento una mano che mi sfiora la spalla, ma è solo un soffio di vento.

"Io sono un uomo buono, sai? Mi chiamo Rui".

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